venerdì 14 aprile 2017

Grecia, la crisi ha molti padri: parliamo dell’ultimo, Tsipras?


Non c’è destra, sinistra, centro o socialismo in ciò che sta accadendo in Grecia. Non sono le idee o i partiti a dover bere una volta per tutte una buona dose di cicuta: ma la mediocrità di uomini che ingannano, fuorviano, illudono, per poi, un attimo dopo, fare peggio dei propri nemici. Dopo 4 tagli in sei anni a stipendi, pensioni e indennità ecco un’altra sforbiciata alle pensioni, grazie alla riforma firmata dal ministro del lavoro Georgios Katrugalos che si scontra con nessun provvedimento per favorire invece nuova occupazione. Un altro taglio del 25% a partire dal 2019 e del 15% per chi ha fatto domanda nel 2016.
Uno scenario che cozza con i proclami di Alexis Tsipras che, anche dopo una campagna elettorale condotta a suon di tuoni contro l’Ue (con slogan come “la Troika è il passato; il voto contro l’austerità è stato forte e chiaro; il futuro non è l’austerità; la speranza ha vinto”), inneggiava a una fantomatica griglia di nuove proposte per far uscire la Grecia dalla recessione. Invece resta immutata, nonostante sacrifici ai ceti medi e bassi e nonostante una guida incertissima per un Paese altrettanto incerto.
Sarebbe stato meglio scegliere delle due l’una: avrebbe dovuto o, in coerenza con quanto promesso agli elettori, fare una battaglia seria e potabile contro Bruxelles (con proposte credibili) oppure, stando agli impegni (forse?) presi in separata sede con Berlino, evitare almeno questo doppio ruolo di “Masaniello” nei giorni pari e coniglio in quelli dispari. Con nel mezzo la povera gente che affonda ogni giorno di più.
Nel pamphlet Greco. Eroe d’Europa che ho scritto nel 2014, ho raccontato molto del malaffare ellenico e in maniera assolutamente trasversale. Senza sconti, anzi, con più di qualche reazione non benevola nei miei riguardi che, anche la traduzione in lingua greca, mi ha causato. Chi oggi si sente toccato da analisi, valutazioni di merito e semplici fatti messi in fila con oggettività, fa peggio dei predecessori.
.... il resto sul Fatto Quotidiano
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.. A PROPOSITO PER CHI CREDE IN QUESTE COSE BUONA PASQUA
 

giovedì 13 aprile 2017

Moneta fiscale, una proposta che può farci uscire dalla crisi dell’Eurozona

di | 13 aprile 2017  Il Fatto Quotidiano

Lo Stato può creare moneta? Certamente sì. L’economia può crescere solo se c’è moneta: la Cina, per esempio, è cresciuta molto rapidamente non per i soldi raccolti con le tasse o per i prestiti esteri, ma creando moneta ex novo. La domanda infatti traina l’offerta (e non viceversa, come insegna J. M. Keynes). Una società con carenza di moneta fa la fine del Giappone, fermo da tre decenni. Anche l’Eurozona è in deflazione ormai da un decennio perché l’euro è strutturalmente una moneta deflazionistica, perché la Bce presta enormi quantità di denaro solo alle banche, e perché le banche investono nella finanza e non nell’economia reale. Le banche non prestano denaro perché hanno troppi crediti in sofferenza; e le aziende non riescono a restituire i debiti perché manca la domanda e le banche non danno più respiro.
Per uscire dalla trappola della liquidità occorre quindi immettere nuova liquidità nell’economia reale. Siccome però l’euro non circola, occorre creare una moneta alternativa valida: la moneta fiscale.
In Italia la principale e la più strutturata proposta di moneta alternativa – che sta dando origine ad altre varianti, come quella comparsa sul blog di Beppe Grillo e presentata in bozza dal prof. Gennaro Zezza – è certamente quella promossa da Micromega e dal compianto Luciano Gallino, uno dei più stimati sociologi italiani. Questa proposta si basa sull’emissione di notevoli quantità di moneta fiscale da parte dello Stato senza però creare debito, ovvero senza fuoriuscire dai Trattati dell’Eurozona. L’obiettivo è di attuare manovre espansive senza provocare nuove drammatiche crisi alla gente.
A differenza di quanto ha scritto su Il Fatto Quotidiano il 5 aprile scorso Fabio Scacciavillani, la moneta alternativa che proponiamo non è però una vera e propria moneta; ovviamente questa è infatti proibita a causa del monopolio della Bce sull’euro e sulla moneta legale: questo lo sanno tutti. La moneta fiscale che abbiamo studiato è invece un titolo di Stato che può fungere perfettamente come moneta.
.............................. Il resto sul Fatto Quotidiano

mercoledì 12 aprile 2017

Questa voglia di disintermediare

Una cosa in comune c’è tra l’ex segretario candidato e il garante padrone del M5S, Renzi e Grillo intendo.
La parola è disintermediazione.
A che serve la libera informazione quando c’è  già pronto il blog con tutte le informazioni?
Da una parte il blog dall’altra il blog, il #Matteorisponde e i quotidiani che fanno da grancassa: entrambi i leader (e i loro fans) dimostrano una certa allergia quando le domande sono scomode. Una esempio fatto già ieri sera durante la trasmissione Gazebo: se le domande sono di Report, ad arrabbiarsi è il Pd e il suo tesoriere, mentre a far la parte del difensore della stampa è il movimento.
Quando invece sono due esponenti del M5S che tampinano il direttore Orfeo(TG1) reo (secondo il movimento) di censurare l’inchiesta Consip, i ruoli si invertono.
Il Pd dalla parte della stampa libera.
Il movimento contro “certi giornalisti” .
In questo modo tutto, il caso Consip, il caso Raggi, le manovrine del governo, i dati dell’occupazione, l’inchiesta di Report sugli intrecci tra Pessina Unità e appalti viene trattata alla stessa maniera. Come maniera da tifo da stadio.
L’inchiesta consip diventa la storiella del magistrato che, assieme al carabiniere amico di Travaglio ha orchestrato tutto per infangare un partito.
Eversione, si è scritto..
Manco fossimo tornati ai tempi di Piazza Fontana.
Servirebbe un’informazione libera da condizionamenti che racconti i fatti e aiuti le persone a costruirsi una sua opinione.
E una classe politica che accettasse l’intromissione della stampa, come un fatto naturale.
Ma qui torniamo alla disintermediazione, alla voglia di parlare direttamente col popolo, togliendo di mezzo quanti (la stampa, i sindacati, gli stessi organi intermedi nei partiti) si mettono di mezzo.
Da unoenessuno.blogspot.it

martedì 11 aprile 2017

Sicurezza: la grande illusione (Furio Colombo)

Le cose sono complicate, e ogni buona notizia porta altre complicazioni. Per esempio dentro la rete scorrono risorse infinite, devi solo conoscerle, prendere e scambiarle. Ma non sai che cosa trovi davanti alla porta di casa quando la apri per entrare nel mondo reale. Non lo sai e non ti fidi. Poiché siamo avvertiti in tempo e in anticipo di quasi tutto, (a che ora ci sarà il temporale) la felice e rischiosa discontinuità della vita diventa un blocco di notizie e di dati che si possono (si devono) controllare. Entrano nella nostra vita due guardaspalle che sono la sicurezza e il controllo. Non un controllo vero su ciò che accade, ma una serie di preavvisi su ciò che potrebbe accadere. Non sono benevoli i preavvisi, e non facilitano il contatto, perché non sei mai abbastanza sicuro, e non ti devi fidare mai.
I punti di passaggio degli aeroporti internazionali sono diventati il simbolo del nostro tempo e del nostro mondo. Macchine scrutano ogni dettaglio di un corpo e realizzano “la trasparenza” che viene tanto invocata in politica. Manca l’aggancio con i pensieri. Ma potrebbe avvenire in ogni momento e ci sembrerà una notizia ovvia. Comunque ciò che avviene ai diffidenti confini dei Paesi del mondo è già un anticipo. Da una parte si troveranno tra poco (sempre di più dopo ogni nuovo grave shock di paure e terrore) metodi sempre migliori per collegare ciò che si vede con ciò che si teme. Dall’altra, nel mondo dei robot e dell’intelligenza artificiale in arrivo, nessuno resterà più il titolare esclusivo di se stesso. Tutto dunque è predisposto per cauterizzare gli affetti, fare in modo che le emozioni e i sentimenti non abbiano più alcun ruolo. Due conseguenze: il comportamento dei cittadini, che non apprezzano cause e ragioni ideali. E il mutamento della immagine del leader. Non importa che sia arido, conta che sia deciso a tutelare la sicurezza. Naturalmente mi riferisco alla sicurezza nei confronti dei migranti e al pericolo che fatalmente portano con sé o come terroristi o come ladri di lavoro o come potenziali malati, naturalmente infettivi. E a una leadership adatta a confrontarsi con questo problema. Mi rendo conto di avere descritto un paesaggio nazionale incredibilmente modesto. Ma lo è. Il Paese è privo di politica estera, e non immagina di darsi alcuna regola di condotta nei confronti dei luoghi e problemi del mondo, che non sia di convenienza o di subordinazione. Circola simpatia per Putin perché ha forza, potere, danaro, nessun ideale o scrupolo, è in grado di liberarci da un ostacolo senza discorsi inutili, porta energia e accetta prodotti. Aumenta la simpatia per Trump, perché chiude i confini senza preavviso e senza riguardo alla vita degli altri. Basta che dichiari la ragione: sicurezza. E la simpatia per Trump rimane e tende a crescere persino se Trump sta minacciando dazi durissimi alla Vespa e ai formaggi italiani. Infatti non dispiace quel suo “America First” che può essere tradotto dovunque “prima noi”, e ti conferma che ci sono una immensità di ragioni per diffidare. Chi resta fuori dall’America (o da ciascuno dei nostri Paesi) resta fuori anche se è il prossimo Premio Nobel. La sicurezza non guarda in faccia a nessuno. Obama è stato l’ultimo presidente portatore di ideali, valori, diritti. Si sono trovati molti modi diversi per screditarlo senza dire le vere ragioni: era nero, non ha fatto guerre e ci voleva costringere a un minimo di fraternità con gli esclusi del mondo. Era un lusso da élite e da establishment. Adesso è necessaria, ti dicono, una politica senza ideali e senza orizzonti. Papa Bergoglio è un ingombro. È chiaro e tenace. Ma è come la confessione per tanti cattolici. Ti senti prosciolto, sollevato, e ricominci subito da capo.
Non c’è una regola di condotta italiana verso l’Europa, di cui siamo membri fondatori, che non sia di discussione, anche aspra, sul costo del biglietto, bravi a chiedere lo sconto, ma non a fornire idee o visioni. E così Francia e Austria ci hanno chiuso le frontiere e noi accettiamo, alla cieca, di aiutarli prestando anche la nostra polizia (ci credereste? Pattuglie miste di agenti italiani e francesi per impedire il passaggio in Francia e aumentare il tappo italiano). Come soluzione ai nostri problemi, ci è venuto in mente di essere disposti a tutto in Libia. Dunque abbiamo assoldato tutte le bande armate che vagano in cerca di preda nel deserto libico, per farne la guardia (con le modalità che vorranno) alla nostra sicurezza. In questo modo pensiamo di avere risposto alle richieste della nuova leadership.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 09/04/2017.

lunedì 10 aprile 2017

The Donald dal gas ai missili: più pantomima che strategia (Valerio Cattano)

Il presidente Usa già annuncia un “segnale” al dittatore della Nord Corea ma sul bombardamento “telefonato” di Shayrat restano punti poco chiari.Congratulazioni ai nostri uomini e donne delle forze armate per aver rappresentato gli Stati Uniti, e il mondo, così bene nell’attacco in Siria”. Il presidente Donald Trump affida a Twitter il suo primo commento ufficiale sul raid, dal discorso alla nazione di giovedì sera. Il tycoon a molti inviso, nello spazio di poco tempo è diventato il guardiano della democrazia.
Anche la Cnn, che prima e dopo la campagna elettorale non gli aveva fatto sconti sul Russiagate – rapporti ambigui dello staff presidenziale con esponenti russi del mondo politico ed economico – rilancia che gli Usa starebbero verificando se il bombardamento sull’ospedale siriano poco dopo l’attacco chimico (l’episodio che avrebbe spinto Trump a intervenire in Medio Oriente) sia stato condotto dalla Russia, o dalla Russia assieme al governo siriano, per distruggere le prove.
In altre parole, il bombardamento deciso dalla Casa Bianca era necessario per mandare un messaggio ad Assad e Putin: in quello scenario non potete fare più come vi pare.
Superata l’onda emotiva però, nella narrazione del raid dopo 72 ore restano spazi vuoti sia sul piano militare che politico. Anche perché il presidente americano ha già abbandonato il fronte siriano per concentrarsi sul nemico di sempre: la Nord Corea del dittatore Kim Jong-un.
Quali obiettivi. “Gli attacchi isolati, è dimostrato che non sono in grado di cambiare molto, serve una strategia ampia e serve l’autorizzazione del Congresso per ulteriori azioni militari”. Il New York Times in un editoriale sottolinea come “è difficile non provare un senso di soddisfazione e giustizia fatta” ma mette in fila una serie di quesiti. L’attacco “era legale? Era una risposta isolata non legata a una più ampia strategia per risolvere il complesso dilemma in Siria? Finora non ci sono prove sul fatto che Trump abbia pensato alle implicazioni dell’uso della forza militare o pensato quali possano essere le prossime mosse”. Il NYT inoltre scrive: “Mr. Trump ha spiegato che il suo atteggiamento è cambiato dopo aver visto le vittime civili dell’attacco chimico. Per quanto possa essere sincero questo sentimento, lo spettacolo di un presidente che fa retromarcia e prende decisioni sull’onda emotiva non suscita fiducia. Bisogna anche chiedersi perché simili sentimenti non siano scattati prima, dinanzi ai 400 mila morti della guerra civile dal 2011 in poi, o delle migliaia di rifugiati siriani a cui lui ha sbarrato la porta”.
Il fronte interno. Il magazine Politico ritiene che il nuovo approccio muscolare del presidente lo aiuterà anche sullo scenario interno; sarà più facile per la Casa Bianca difendersi dalle accuse di relazioni troppo strette tra collaboratori di Trump e la Russia che stanno emergendo nell’indagine dell’Fbi sulle interferenze di Mosca nelle elezioni dello scorso novembre.
A un quesito di Politico riguardo alla possibilità che queste valutazioni abbiano avuto un peso nella decisione di dare il via al raid, Michael Short, portavoce della Casa Bianca ha reagito sdegnato: “Assolutamente no, è una domanda francamente offensiva”.
Gli alleati di Assad. “Dopo il massiccio attacco Usa con missili da crociera sulla base aerea di Shayrat né il Pentagono né il Dipartimento di Stato hanno presentato alcuna prova della presenza di armi chimiche in questa base aerea”. Così il generale Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo ribadisce la richiesta del Cremlino: gli americani devono provare che Assad abbia usato armi chimiche e che siano partite da quella base. Il presidente iraniano, Hassan Rohani, ha chiesto la creazione di un gruppo internazionale – formato da Paesi neutrali – che indaghi su “da dove siano arrivate” le armi usate nell’attacco a Khan Sheikoun, “per mezzo di chi e se siano state chimiche o meno”.
Altri particolari tolgono smalto all’entusiasmo di Trump: la base, nonostante sia stata sottoposta ad un bombardamento serrato – gli americani hanno parlato di 59 missili Tomahawk – ieri era di nuovo operativa. I russi sono stati avvisati prima sul fatto che sarebbe avvenuto il bombardamento. Gli stessi russi in Siria hanno l’ombrello dei razzi S400, il sistema di difesa più avanzato del Cremlino, in grado di intercettare i razzi da crociera (come i Tomahawk), ma non li hanno utilizzati.
Il bluff. Proprio perché ci sono tasselli che non vanno al loro posto anche sulla stampa americana prende corpo l’ipotesi che quello del presidente-magnate sia stato un bluff da giocatore di poker, in combutta con l’amico di Mosca. “E se Putin fosse la mente dietro l’ultima settimana in Siria per aiutare indirettamente l’immagine del presidente americano e distogliere l’attenzione dalle indagini?”.
Sulla rete Msnbc il conduttore Lawrence O’Donnell mette insieme questa sceneggiatura alternativa: l’attacco chimico, anche se ridotto, ha attirato l’attenzione dei media americani e offerto all’amministrazione Trump la possibilità di lanciare i missili, e rafforzare la sua immagine. “La reazione della Russia è stata ridotta” ma la “dinamica è cambiata” sui media, che ora ritengono in bilico i rapporti fra Russia e Stati Uniti.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 09/04/2017

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