giovedì 23 febbraio 2017

schiavitù del lavoro e fallimento del job act

Secondo me son due oggi le news che dovremmo far girare:
una è la prova provata, o pistola fumante, delle balle propinateci dal governo: finiti gli incentivi di Stato l'occupazione crolla a livelli pre-riforme. Lo scorso anno la decontribuzione voluta da Renzi per incentivare i contratti stabili è diminuita dal 100 al 40% e vale solo per due anni. Risultato: dopo il forte incremento dell'anno prima, i nuovi assunti in pianta stabile sono stati addirittura meno di quelli del 2014, quando gli sgravi non c'erano ancora. Giù anche le trasformazioni. E i licenziamenti su rapporti a tempo indeterminato sono saliti da 624mila a oltre 646mila.
L'altra è: possibile che si possa morire di fatica, come risulta essere avvenuto? Le sei persone raggiunte dall'ordinanza di custodia in carceri sono accusate di reati riconducibili al fenomeno del caporalato. I provvedimenti sono stati emessi dalla Procura di Trani in un filone di indagine aperto dopo la morte di Paola Clemente, avvenuta nelle campagne di Andria il 13 luglio 2015. Una bracciante racconta: "Accettiamo perché il lavoro qui non c'è e perderlo è una tragedia".
Due storie raccontate; due aspetti di questi tempi bui dove arraffoni e arruffoni fanno il bello e il cattivo tempo sfruttando proprio le pecche e i dettagli del sistema democratico...... governi e parlamenti sembrano sempre più preda di lobby che fanno i propri interessi a di là di elezioni, interessi collettivi ecc.
Sempre di più i deboli pagano caro la ricerca di un futuro e di una vita migliore..

mercoledì 22 febbraio 2017

Una democrazia ridotta a bocciofila (Massimo Fini)

De hoc satis dicevano i latini nella loro lingua ellittica, insuperabile nella sintesi. Letteralmente: “Di questo abbastanza”. Che può essere tradotto senza forzature in “di questo ne abbiamo pieni i coglioni”. Di quale hoc abbiamo pieni i coglioni? In prima battuta dei nostri quotidiani (dei settimanali cosiddetti politici non vale nemmeno la pena parlare, solo l’Espresso, nella sua spocchia radical chic, crede ancora di esistere) che ogni giorno ci ammanniscono dalle sei alle otto pagine sui fatti interni dei partiti, queste associazioni private, queste bocciofile, i cui ruminamenti non dovrebbero avere alcun interesse né rilevanza pubblica (a meno che, naturalmente, non riguardino fatti penali).
Prendiamo per esempio, a caso, qualche titolo del Corriere di un giorno qualsiasi, o di più giorni, e come partito, in particolare, il Pd. Ma il discorso vale per qualsiasi giornale e, a seconda delle evenienze, per qualsiasi partito. “Congresso Pd, rischio scissione”; “Un partito che si aggroviglia”; “Sfida a D’Alema (senza dirlo)”; “Pd, sì al congresso tra le tensioni”; “Il leader: li seppelliremo con le loro regole. In bilico le urne a giugno”; “Il ‘nemico numero uno’ seduto muto in platea. E Matteo lo provoca (senza mai nominarlo)”; “Il rebus urne. I tre partiti dem”; “Una velocità che strappa l’unità del Nazareno”. Questo il Corriere del 14 febbraio. Dopo è stato un crescendo fino all’apogeo di questi giorni in cui pare (nel momento in cui scrivo nulla è ancora certo) si scinda. Lotte interne al coltello, retroscena, incontri segreti, notizie dettagliate su che cosa hanno mangiato nei loro pourparler o su quali cessi d’oro si sono seduti. Che possono interessare queste cose a una persona normalmente sana di mente? Non c’è da stupirsi se le vendite dei giornali si sono ridotte al lumicino (nostalgia dei tempi in cui il Corriere dedicava solo due colonne, firmate da Luigi Bianchi, ai retroscena della politica; nostalgia delle tribune politiche dirette da Jader Jacobelli che, nonostante il suo aspetto da gallinaceo, era un uomo molto colto).
Ma i giornali hanno altre responsabilità verso se stessi e la collettività. Prima si sono autocannibalizzati dedicando quasi altrettante pagine ai quibusdam che sfilano ogni giorno nelle Tv generaliste, facendo diventare personaggi e opinion maker degli individui che, volendo essere leggeri, sono braccia sottratte all’agricoltura o ai lavori domestici.
Sono costoro che orientano la collettività, che dettano le mode, che impongono i costumi. Non i giornali, che come se ancora non bastasse si sono ulteriormente autocannibalizzati dando un rilievo enorme a quanto accade sui social network dove la prevalenza del cretino, che in linea di massima si esprime in forma anonima dando libero sfogo ai suoi peggiori e bestiali istinti – una sorta di jihadista vigliacco – o più semplicemente alla sua idiozia, è assicurata.
Ma in fondo giornali, Tv, social non sono che delle sovrastrutture, degli epifenomeni. Il vero nocciolo duro della disgregazione italiana, politica, culturale, etica, sono i partiti, queste bocciofile intrinsecamente mafiose e spesso criminalmente mafiose.
I grandi teorici della democrazia liberale, da Stuart Mill a John Locke, non prevedevano la presenza dei partiti. E come nota Max Weber fino al 1920 nessuna Costituzione liberaldemocratica li nominava. E anche la nostra Costituzione, che pur nasce dal CLN, cioè dall’alleanza di tutte le formazioni antifasciste, dai comunisti ai monarchici, cita i partiti in un solo articolo, il 49, che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È un diritto, non un obbligo. Partendo da quest’unico articolo i partiti hanno occupato anche gli altri 138. Contro questo pericolo, vale a dire la partitocrazia, avevano tuonato già nel 1960 il grande giurista Giuseppe Maranini e persino lo stesso presidente del Senato Cesare Merzagora, un galantuomo indipendente. Io mi onoro di aver dato battaglia, in solitaire come giornalista (sul versante politico c’erano i radicali di Panella) alla partitocrazia più o meno dagli inizi degli anni Ottanta.
Ma è stato tutto inutile. La degenerazione partitocratica, come un tumore maligno, è andata progressivamente enfiandosi producendo metastasi in ogni settore della vita pubblica e privata. Oggi siamo arrivati al punto che è l’Assemblea della bocciofila Pd a determinare la data del momento più sacrale della democrazia: le elezioni. De hoc satis.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 21/02/2017.

martedì 21 febbraio 2017

Fake news: il disegno di legge è pericoloso, inattuabile e inutile

Ieri l'amico blogger Jigen ha postato sull'argomento bufale, scritti ostili: è di moda è fa audience, ma soprattutto lascia spazio a chi ha tanta voglia di mettere un bel bavaglio a quell'ultimo lembo di libera espressione che è rimasto nella società dell'informazione 'controllata': la rete.
Ecco posto quest'ARTICOLO del Fatto Quotidiano che fa luce negli angoli bui e smachera qualche voglia di maganello di troppo.... qui ve ne posto una parte; il resto lo trovate al link succitato del Fatto
di | 21 febbraio 2017

Obbligo di registrazione e di rettifica entro 48 ore per tutti i blog e siti di informazione, obbligo di sorveglianza generale – o poco ci manca – per i gestori dei social network e delle piattaforme di condivisione di contenuti prodotti dagli utenti, pene pecuniarie e detentive per chi pone in essere una serie di condotte descritte in modo tanto vago ed evanescente da abbracciare al tempo stesso qualsiasi forma di reato di opinione così come ogni forma di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.
Può essere riassunto così – parola più parola meno – il contenuto del disegno di legge (Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica) attraverso il quale i senatori Gambaro (Ala), Mazzoni (Ala), Divina (Ln-Aut) e Giro (FI-Pdl) sembrano intendere dichiarare guerra al fenomeno planetario delle cosiddette “fake news”, le notizie false che rimbalzano sul web [e per la verità non solo sul web], influenzando le vicende della politica, dell’economia e della società e distorcendo la percezione della realtà da parte dell’opinione pubblica.
Dell’iniziativa legislativa tripartisan si è già detto e scritto molto e non sono mancate né critiche, né perplessità sollevate da più parti e per ragioni diverse.
E’ buona regola – lo suggeriva già Schopenhauer nel suo “Il mestiere dello scrittore” – scrivere solo quando si ha, per davvero, qualcosa da aggiungere a quanto già scritto da altri e, quindi, a un dibattito in corso. Spero di non tradire questa buona regola aggiungendo una manciata di considerazioni a quelle già fatte, da tanti, sin qui. Tuttavia la questione è centrale per il futuro dell’ecosistema internet e, forse – senza voler abusare del termine – per il futuro della nostra democrazia e, probabilmente, merita qualche parola in più.
E’ ovvio, innanzitutto, che si può scegliere di leggere il testo del disegno di legge in questione e poi lasciarlo scivolare distrattamente sulla scrivania – o addirittura nel cestino – semplicemente scuotendo le spalle e pensando che tanto non esiste nessuna concreta possibilità che, in una stagione politica come quella attuale, questa legislatura darà mai alla luce una legge sul web. Non c’è tempo e, soprattutto, deputati e senatori sono, ormai, in tutt’altre faccende affaccendati.
Ma un disegno di legge è qualcosa di più che una manciata di parole pronunciate da questo o quel parlamentare in un dibattito pubblico e, quindi, sembra opportuno mettere nero su bianco – anche solo a futura memoria – perché quello proposto in Senato nei giorni scorsi è una cura peggiore del male, che nasce vecchia, non risolverebbe alcun problema e, anzi, ne creerebbe a dozzine di nuovi e più perniciosi.
Prima di avventurarsi in questo ragionamento val la pena – per fugare ogni dubbio – chiarire che il problema delle notizie false che rimbalzano online come offline nei cosiddetti “nuovi media” così come in quelli vecchi e meno nuovi è un problema reale, globale, importante anche se né nuovo, né sconosciuto a chi si occupa di media giacché di notizie false – persino di guerre inventate e documentate in studi cinematografici – è piena zeppa la storia.
Le ricette proposte dai quattro senatori firmatari del disegno di legge sono però anacronistiche, inattuabili, inefficaci e, soprattutto ad alto rischio di deriva liberticida.
Un giudizio netto e severo che merita qualche spiegazione.
come detto sopra il resto su Fatto Quotidiano

lunedì 20 febbraio 2017

Usa, strana guerra Trump-intelligence (Furio Colombo)

Ancora prima di avere prestato giuramento sulla Costituzione degli Stati Uniti, Donald Trump aveva cominciato a scegliere, in modo pubblico e spettacolare, i personaggi che avrebbero fatto parte del suo governo. Tra le prime scelte (mossa ragionevole data l’importanza del ruolo) c’è stata quella del generale Flynn. Come in tutte le mosse di Trump, anche in questa decisione non è il confronto con altri possibili candidati a guidare la scelta, ma l’impegno a dimostrare di essere l’opposto di Obama, che aveva dismesso prontamente Flynn da quello stesso ruolo quando si era accorto della stravaganza di comportamenti del generale, che ha sempre avuto il figlio come aiutante di campo o assistente, e della non coincidenza di idee sulla pace, la guerra e la situazione nel mondo.
Il periodo di servizio di Flynn con Obama presidente è stato brevissimo. Ancora più breve con Trump presidente, perché Flynn ha scelto di stabilire subito e da solo un rapporto con militari e diplomatici russi al di fuori dell’intero sistema istituzionale americano. Così denunciano i Servizi segreti, e non è dato di sapere se Trump, da solo, fosse stato informato.
Ha reagito con furore. Ma non gli è restata altra soluzione che ritirargli il suo delicatissimo incarico, appena 36 giorni dopo la nomina, che certo era stata suggerita da chi sapeva più di lui sulla sicurezza nazionale vista da destra. In verità la disavventura dei Flynn con Trump (ovvero di Trump con i Flynn) è doppia, se si pensa che quasi subito dopo la nomina di Flynn padre, regolarmente presentatosi col figlio, che era stato anche un importante collaboratore del neo presidente durante la campagna elettorale, era scoppiato il caso della pizzeria “Ping Pong” di Washington.
Secondo un “fatto alternativo” (definizione della consigliera di Trump, Julia Hahn, per coprire false narrazioni) quella pizzeria era il quartier generale della vita oscura di Hillary Clinton, il luogo di un mercato sessuale dei bambini gestito dalla Clinton in persona.
La storia, cervellotica e falsa, come tutto il materiale usato dal gruppo Trump contro la sua avversaria durante la campagna elettorale, ha avuto però un imprevisto salto nella realtà. Un giovane uomo bianco, armato di fucile automatico, si è presentato nella pizzeria (realmente esistente e dedicata ai più piccoli) e ha fatto fuoco contro l’immoralità di cui gli avevano raccontato in Rete. Ma la presenza casuale di poliziotti che lo hanno subito afferrato, gli ha fatto sbagliare la mira. Nessuna vittima, e piena confessione dello sparatore, giovane padre caduto nella rete e sicuro di dover fare giustizia, dopo quello che il team dei “fatti alternativi” di Trump gli aveva raccontato.
Flynn figlio (Arthur) che aveva appena preso servizio come assistente del padre Michael (capo della Sicurezza Nazionale) era l’autore e diffusore della storia Ping Pong. Dopo il brusco passaggio del falso evento dalla immaginazione calunniosa alla realtà, ha dovuto dimettersi. Dicono i media americani che non hanno smesso di “resistere”, che l’infortunio di Trump (perdere il pezzo più importante della sua squadra presidenziale insieme alla strana figura del figlio assistente, entrambi colpiti da accuse gravi e strane) rende la sua figura ancora più difficile da decifrare e da accettare, segnata da un furore violento nei confronti dei media e dei rifugiati (che vorrebbe senza parola, e per questo odia i media) e da una oscillante incapacità di decidere quando si tratta di personaggi chiave e di fatti importanti, che sembra conoscere poco e affrontare, di volta in volta, per delega.
Intorno a queste mosse o decisioni, che sembrano suggerite dal di fuori delle istituzioni, si intravedono (e a momenti sono molto chiari) atti di guerra delle istituzioni (le agenzie di Intelligence) contro il caos della presidenza Trump. Il caos è prodotto dai disorientanti e stravaganti tweet mattutini del presidente, che affermano, negano o denigrano senza alcun rapporto con una linea di governo, è alimentato da elementari dichiarazioni politiche pronunciate casualmente mostrando di non calcolarne la gravità e, prima ancora, il senso di ciò che dice in pubblico (le parole sul come fare la pace tra Israele e Palestina) e nasce dal raccogliere a caso, per divertimento o per rabbia, i pezzi del suo gioco per esibirli in pubblico, come se non ci fosse una continuità, o un progetto comune di governo. Manca del tutto un rapporto con il Congresso e con il Partito repubblicano.
Il punto critico del caos che Trump è riuscito a creare, è la strana guerra del presidente contro le agenzie di intelligence americane e delle agenzie di intelligence verso il presidente.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 19/02/2017.
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Sembrano, però, tutti dimenticare che è seduto su una montagna di armi detenuto da una nazione armata fino ai denti e pericolosa di per se...........
 

domenica 19 febbraio 2017

Il Gran ballo del Pd (attori e comparse)

di | 19 febbraio 2017  Il Fatto Quotidiano

La telenovela Pd mi sta esaltando come un concerto di Bianca Atzei in aramaico. I protagonisti sono molteplici e l’unica certezza è che, qualsiasi cosa accada, Renzi sarà ancora Campione del mondo, Farinetti al Quirinale e Vecchioni Pallone d’oro. Presentiamo ora gli attori di questa gran bella contesa.
Renzi. La più grande sciagura triplomentica mai abbattutasi nella già di per sé disastrata storia della sinistra italiana. Una pingue comparsa di un film minore di Panariello spacciata per Robert De Niro. Improponibile, impresentabile, inaccettabile. Mandatelo a sculacciare i billi della Valdichiana, via.
Boschi. Ha provato a distruggere la Costituzione, ha detto che i partigiani erano con lei e che il “sì” avrebbe aiutato a spezzare le reni all’Isis. Ad Arezzo ha imposto un diversamente carismatico come sindaco, che ha poi epicamente perso contro la destra. Se torna nella sua città la inseguono coi forconi (infatti non ci torna), quando va in tivù ha la dialettica di un fagiano morto e non ne indovina una da prima che nascesse. Eppure, da dietro le quinte, continua a dettare la linea. Sta ancora al governo, sebbene avesse promesso in caso di sconfitta referendaria di emigrare a Bengasi. Maria Elena, fatti e facci un regalo: ritirati dalla politica e guadagnati da vivere vendendo begonie sulla Statale Casentinese. Avresti un futuro.
D’Alema. Da mesi è in modalità “Arrivo, spacco tutto e poi mi levo dai coglioni”. Sale sul palco, mostra quanto ce l’ha lungo, grida “Renzi suca!” e se ne va. Se avesse avuto questa grinta anche sul finire dei Novanta, non saremmo finiti come siam finiti. In questa fase è incontenibile. Poster in camera e cortei imperituri. Daje Max.
Orfini. Va be’, dai. Di Orfini che vuoi dire. Basta guardarlo.
Il resto al link di | 19 febbraio 2017 Il Fatto Quotidiano

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