venerdì 20 febbraio 2015

Jobs Act, Renzi: “Nessuno sarà lasciato solo, più tutele per chi perde posto”

di | 20 febbraio 2015
“E’ una giornata storica, un giorno atteso per molti anni da un’intera generazione che ha visto la politica fare la guerra ai precari ma non al precariato. Superiamo l’articolo 18 e i cococo. Nessuno sarà più lasciato solo. Ci saranno più tutele per chi perde il posto e parole come mutuo, ferie, diritti buonuscita entrano nel vocabolario di una generazione che ne era stata è esclusa”. Così il premier Matteo Renzi in conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri che ha approvato in via definitiva i primi due decreti attuativi del Jobs Act – quelli sul contratto a tutele crescenti e sui nuovi ammortizzatori sociali, varati il 24 dicembre – e ha esaminato quello sul riordino delle forme contrattuali e le nuove disposizioni in materia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, oltre al ddl Concorrenza. “Abbiamo tolto ogni alibi a chi dice che in Italia non ci sono le condizioni per assumere. Da oggi il lavoro presenta più flessibilità in entrata e più tutele in uscita. Nessuno resta solo quando viene licenziato”, ha sostenuto il presidente del Consiglio. “Restituiamo ai pollai i cococo, cocopro e coco vari”, ha spiegato poi riferendosi al fatto che i contratti di collaborazione a partire dall’1 gennaio 2016 andranno in soffitta per essere sostituiti dal nuovo contratto a tutele crescenti. “Questo tipo di intervento vedrà circa 200mila nostri connazionali passare dal cococo ma soprattutto dai cocopro al contratto a tutele crescenti, quindi un lavoro a tempo indeterminato”. Quanto al disegno di legge sulle liberalizzazioni, Renzi ha presentato in sintesi le norme sulle assicurazioni, sui contratti telefonici e sulla notifica delle multe, dove viene superata “la riserva per Poste” che “c’è solo in Ungheria e in Portogallo”. “Diamo una sforbiciata, perché riduciamo il gap tra chi gode di una rendita e chi non ne usufruisce, ha detto il premier. Anticipando che “andremo un po’ meno dal notaio, andremo con più serenità incontro ai nostri professionisti”. Il ddl “incontrerà in Parlamento le resistenze delle lobby, ma noi le sfideremo”, ha poi annnciato. Affermazione che però stride con il contenuto di alcune delle norme approvate. A partire da quelle in materia di Rc auto, che come emerso nei mesi scorsi ricalcano pari pari quelle decisamente favorevoli per le compagnie inserite dall’esecutivo di Enrico Letta nel decreto Destinazione Italia e stralciate dopo le polemiche.
Confermato lo stop al reintegro anche nei casi di licenziamento collettivo - “La nostra scommessa è puntare sui contratti a tempo indeterminato rovesciando una mentalità che fino ad oggi voleva che si assumesse con qualunque contratto tranne con quello a tempo indeterminato”, ha spiegato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Dal momento in cui il governo varerà il decreto attuativo sulle tipologie contrattuali non sarà più possibile sottoscrivere nuovi contratti di collaborazione a progetto. Quelli in essere, invece, dall’1 gennaio 2016 saranno trasformati in rapporto di lavoro subordinato nel caso mascherino un rapporto di lavoro dipendente. Negli altri casi, ha detto Poletti, “dipende: chi di fatto è una partita Iva, per esempio, aprirà la partita Iva”. Al contrario, “se i controlli verificano l’esistenza di una partita Iva fasulla gli si applicano le regole del lavoro dipendente”. Quanto all’ipotesi che il Consiglio dei ministri potesse decidere di modificare i contenuti dei decreti approvati prima di Natale, Poletti ha invece chiarito che “il governo ritiene che ci sia equilibrio nelle norme del decreto attuativo del Jobs act, sul contratto a tutele crescenti e su quello che riguarda la Naspi e per questo ha deciso di non cambiarle”. Di conseguenza “il decreto sul contratto a tutele crescenti non è stato modificato sul tema dei licenziamenti collettivi“. Vale a dire che è confermato che la cancellazione del diritto al reintegro per i nuovi assunti riguarda anche le procedure di licenziamento che coinvolgono gruppi di lavoratori. Con il risultato di creare nella stessa azienda categorie di dipendenti con trattamenti diversi a seconda dell’anzianità di assunzione.
Anche le aziende non in crisi potranno demansionare i dipendenti – Poletti ha poi dovuto ammettere che sul tema del demansionamento una variazione non da poco rispetto ai contenuti della delega c’è in effetti stata: “Il lavoratore avrà sempre garantito il trattamento economico“, ma l’azienda potrà ridurre il suo inquadramento “fino ad un livello” a fronte di una “riorganizzazione o di una ristrutturazione aziendale”. Non servirà, dunque, che l’impresa stia attraversando un periodo di crisi. Basterà che invochi la necessità di “riorganizzarsi” e avrà strada libera nello spostare i dipendenti a mansioni meno qualificate delle precedenti. E lo stesso avverrà “negli altri casi individuati dai contratti collettivi“. Peraltro anche sul fronte economico la garanzia è molto relativa, visto che il mantenimento del reddito non comprende “trattamenti accessori legati alla specifica modalità di svolgimento del lavoro”. E saranno possibili “accordi individuali in sede protetta tra datore di lavoro e lavoratore che possano prevedere la modifica anche del livello di inquadramento e della retribuzione al fine della conservazione dell’occupazione, dell’acquisizione di una diversa professionalità o del miglioramento delle condizioni di vita”.
Altre novità riguardano l’eliminazione del lavoro ripartito e delle associazioni in partecipazione e l’introduzione del “contratto di ricollocazione: un voucher con quale ci si rivolge all’agenzia per trovare un nuovo posto di lavoro”. I contratti a termine e il lavoro a chiamata invece non cambiano e anche per le somministrazioni di lavoro resteranno in sostanza le norme attuali. “Non siamo stati cosi bravi da trovare una soluzione alternativa”, ha detto Poletti.
Il Consiglio dei ministri ha anche approvato nuove norme sulla maternità: è stata prevista l’estensione del congedo parentale dagli attuali 3 anni di vita del bambino a 6. Per quanto riguarda la retribuzione del lavoratore in congedo, rimane al 30 per cento come è attualmente, secondo quanto spiegato dal ministro. Inoltre “abbiamo equiparato maternità e paternità con le adozioni o gli affidi perché riteniamo che quella famiglia ha gli stessi diritti”. In materia di congedi di paternità, viene estesa a tutte le categorie di lavoratori la possibilità di usufruire del congedo da parte del padre nei casi in cui la madre sia impossibilitata a fruirne “per motivi naturali o contingenti”.
Decreti fiscali rimandati perché “non possiamo permetterci altri passi falsi” – Alla domanda sullo slittamento dei decreti fiscali, che andranno in un successivo Consiglio dei ministri perché – è la versione ufficiale – il ministro dell’Economia non ha potuto essere presente dovendo presenziare alla riunione dell’Eurogruppo sulla Grecia, Renzi ha detto che “molte delle norme sono già pronte” e “il rinvio di oggi è dettato esclusivamente dalla circostanza di Piercarlo all’Ecofin”. In ogni caso, “quello sul fisco che dobbiamo offrire all’attenzione dei cittadini è un disegno complessivo e le polemiche delle settimane scorse mi hanno confermato che non possiamo permetterci passi falsi verso l’esterno, quindi i 15 giorni in più che ci prendiamo li useremo per affinare i testi dove necessario” e proporre un disegno che “elimini la discrezionalità dei pubblici uffici nella gestione fiscale, che spieghi che noi siamo contro l’evasione e pro business”. “Abbiamo avuto bisogno che Piercarlo fosse a Bruxelles perché l”Italia sta tentando di arrivare a un’intesa, a un punto di accordo”, ha affermato poi il premier passando a commentare le trattative con la Grecia sul debito. “Trovo che il principio riforme in cambio di tempo è giusto. La Grecia deve fare riforme fondamentali come quella contro l’evasione fiscale e d’altra parte è importante che gli impegni che si sono siglati siano affrontati e gestiti, ma il dibattito è molto acceso e non aggiungerò altro, Padoan è lì per questo, tutti siamo impegnati a dare una mano in questa direzione”.
p.s.
quello che non dice è che gli imprenditori avranno sconti se assumono: a) bisognerà vedere se ne hanno un proprio profitto o non gli conviene.. nel secondo caso il fiasco è assicurato. b) la ex-cig è poco finanziata (è di oggi la notizia che il Tesoro sostiene che non ci sono soldi per i disoccupati, non è un buon inzio) quindi il rischio è una versione degli esodati in versione 2.0; c) non ci credo che sia questo il vero problema del paese. Non vorrei che ci stiamo adeguando non alle richieste degli imprenditori ma a quelle dei negoziati per il TTIP: il che sarebbe davvero grave....
mi ha colpito la frase "non commettere passi falsi"... ne sa qualcosa perchè finora ne ha fatti a iosa eppure è ancora lì, chissà perchè.
 

giovedì 19 febbraio 2015

Il piano B?

Piano B? Finisce qui l'alfabeto di Tsipras? Perchè la delusione dev'essere forte se l'alfabeto della sinistra greca se ha solo due....... lettere. Si poteva fare altrimenti: certo; gli esempi non mancano: dall'islanda all'equador ce ne sono a iosa e invece la montagna ha prtorito il topolino: hanno chiesto ai cravattari una proroga, un pò poco perchè tanto valeva non fare tutta sta manfrina e farlo subito senz indugi evitando le montagne russe di questi giorni che, a posteriori, si è autorizzati a pensare fossero solo per tener calmo il fronte interno facendo passare una sonora sconfitta per una vittoria del popolo!!!! Per citare un precedente: Kadesh dice nulla? Fu una semi sconfitta o al massimo un pareggio per gli egiziani, contro gli ittiti, ma in patria passò per una "folgorante" vittoria.... contenti loro. D'altronde se avessero letto i report interni del FMI sapevano, se avessero saputo leggere fra le righe, cosa si doveva fare ma dalle rape non si cava sangue, vero?  Era già tutto previsto? Si, due esempi:
1. di Stefano Feltri | 18 febbraio 2015 Fatto QuotidanoPerché Atene sta già per capitolare
Il bluff sta per finire: domani si capirà se la Grecia di Alexis Tsipras preferisce tradire le sue promesse elettorali o uscire dall’euro e dall’Unione europea. Secondo le indiscrezioni che Bloomberg rilanciava ieri sera, il governo greco sarebbe orientato a chiedere un’estensione del programma imposto dalla Troika che scade il 28 febbraio. Ci saranno condizioni un po’ diverse, certo, ma alla fine Angela Merkel potrà spiegare agli elettori tedeschi che i greci rimangono sotto la tutela europea e non vengono lasciati liberi di cancellare tutte le riforme dell’austerità di questi anni.
Tsipras spiegherà in Grecia che ha vinto perché la Troika non si chiamerà più Troika, anche se i creditori (Unione europea, Fondo monetario, Bce) continueranno a vigilare sui 240 miliardi che hanno prestato alla Grecia in questi anni.
La rottura dei negoziati lunedì sera all’Eurogruppo ha spinto tutti a riflettere sull’ipotesi che davvero Atene possa essere congedata dall’Unione e dall’euro: niente riforme e niente austerità significano niente più finanziamenti a uno Stato che ha le casse vuote. Sempre Bloomberg ha raccontato il clima al vertice dell’Eurogruppo a Bruxelles: il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, avrebbe “perso le staffe” e spiegato al suo omologo greco Yanis Varoufakis che rimanere nell’euro “è una decisione interamente nelle mani della Grecia”. E il premier Tsipras ha ripetuto che “l’austerity è morta” e che non accetta compromessi.
Ma la politica si ferma dove cominciano le esigenze concrete della finanza. Le banche greche stanno affrontando da dicembre, quando sono state convocate le elezioni anticipate, una fuga di capitali verso l’estero, almeno 7,6 miliardi di euro. Fiumi di denaro continuano a lasciare il Paese, come dimostra la decisione della Bce di Mario Draghi di alzare da 60 a 65 miliardi la linea di credito di emergenza Ela in questi giorni di tensione. E, secondo la stampa greca, non sarebbero già più abbastanza. Sul Financial Times di ieri l’economista tedesco Hans-Werner Sinn sottolineava il paradosso di questa situazione: “In definitiva i cittadini degli altri Paesi europei, senza che nessuno li abbia consultati, stanno fornendo credito a proprio rischio e pericolo per consentire ai greci benestanti di spostare i loro capitali al sicuro”.
I piccoli risparmiatori o i tanti ateniesi ridotti in povertà dalla austerità non hanno ingenti depositi da spostare all’estero. I ricchi – spesso evasori – invece sì. Hans-Werner Sinn suggerisce quindi che ci dovrebbe essere un blocco ai movimenti di capitale, come a Cipro nel 2013 durante la crisi bancaria che portò all’arrivo della Troika. Una crisi bancaria spingerebbe la Grecia fuori dall’euro ma le misure che servono a evitarla certificherebbero comunque la fine della moneta unica. Per questo Tsipras non ha altra scelta se non cedere.

2. di F. Q. | il Fatto Quotidiano del 19 febbraio 2015 titolo: Grecia, Atene chiede alla Ue estensione del prestito. Ma Berlino dice no

Sembrava una schiarita. Invece i contenuti della richiesta di proroga degli aiuti presentata giovedì mattina da Atene all’Eurogruppo provocano l’immediato niet di Berlino. E a poco valgono le prese di posizione della Commissione e del Parlamento Ue, che gettano acqua sul fuoco: si torna alla casella di partenza, o quasi. Il governo di Alexis Tsipras, come comunicato via Twitter dal presidente del consiglio dei ministri dell’Economia dell’Eurozona Jeroen Dijsselbloem, ha inviato a Bruxelles una lettera in cui chiede l’estensione per 6 mesi del programma di assistenza finanziaria in scadenza il 28 febbraio. E venerdì alle 15 è convocata a Bruxelles una nuova riunione dell’Eurogruppo per discutere della proposta, dopo il fallimento di quella di lunedì scorso. Ma, appunto, la cancelleria di Angela Merkel ha subito fatto sapere che le condizioni chieste dall’esecutivo a guida Syriza – in sostanza stop alle misure di austerity – sono inaccettabili. “La lettera di Atene non presenta alcuna proposta di soluzione sostanziale“, ha detto all’agenzia Dpa Martin Jaeger, portavoce del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Spiegando che la richiesta è quella di un finanziamento ponte, ma senza adempiere alle richieste del programma. Di conseguenza “lo scritto non corrisponde ai criteri stabiliti nell’Eurogruppo di lunedì”. Poco dopo il vice cancelliere Sigmar Gabriel ha detto: “La proposta greca sia finanziata dai greci stessi”. Come dire che dalla Repubblica federale altri soldi non arriveranno. Una reazione che ha “sorpreso” il presidente del Parlamento Ue Martin Schulz, secondo cui “la lettura della lettera mostra che la Grecia si è mossa parecchio. Rinuncia a molte cose che fino all’altro ieri erano indicate come ‘non trattabili'” e comunque “non abbiamo tempo per dibattiti ideologici“. Dopo la chiusura di Berlino la strada è in salita – Altro che “segno positivo che spiana la strada a un compromesso ragionevole nell’interesse di tutta l’Eurozona”, come aveva commentato a caldo il portavoce del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. Secondo il quale il governo Tsipras ha chiesto “l’estensione del Master financial assistance facility agreement, che in termini legali è il riferimento all’attuale programma”. Vale a dire quello che va a braccetto con il memorandum e le politiche di austerità concordate dai precedenti esecutivi con la troika, il trio dei creditori formato da Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, che nel complesso hanno concesso al Paese oltre 240 miliardi di euro di aiuti. Anche se il Fondo, per parte sua, ha chiarito che il suo programma di aiuti “scade nel marzo del 2016″, “in questa fase non c’è bisogno di prorogarlo” e comunque “è flessibile“. Atene per parte sua ha subito chiarito di “non aver richiesto un’estensione del memorandum“. Per averne conferma basta leggere la missiva originale, che chiede appunto un allungamento del prestito per “dare respiro” alla società e avere il tempo necessario “per negoziare con i partner senza ricatti e tempi stretti”. Il Paese promette di impegnarsi “all’equilibrio dei conti e, contemporaneamente, a fare le riforme contro l’evasione fiscale e la corruzione” e di astenersi da azioni unilaterali che minerebbero il raggiungimento degli obiettivi fiscali e accetta che l’estensione sia monitorata da una supervisione di Ue, Bce e Fmi, ma nel documento non sono mai citati i termini “troika” né “salvataggio“. E Varoufakis, che firma il testo, ricorda poi che “le procedure di accordo dei governi precedenti sono state interrotte dalle recenti elezioni” e, “di conseguenza, molte delle disposizioni tecniche sono state invalidate“. Non solo: scopo della richiesta di estensione di sei mesi è “concordare i termini finanziari e amministrativi mutualmente accettabili” e “avviare il lavoro tra i gruppi tecnici per un possibile nuovo Contratto per la ripresa e la crescita che le autorità greche prevedono tra Grecia, Europa ed Fmi che potrebbe seguire l’attuale accordo”. Come dire che questo è solo il punto di partenza per il “vero” negoziato”. Nel frattempo, Atene chiede che la Bce torni ad accettare i bond di Atene come garanzia in cambio di liquidità, cosa che ha fatto fino al 4 febbraio quando il consiglio ha deciso di non concedere più quella deroga. E la lettera si conclude con l’auspicio che tutto questo permetta al governo greco di “avviare le sostanziali, profonde riforme necessarie per ripristinare gli standard di vita di milioni di cittadini greci attraverso una crescita economica sostenibile, un livello di occupazione dignitoso e coesione sociale”. Dalla Bce ossigeno alle banche. Ma i soldi basteranno solo per pochi giorni - La richiesta del governo a guida Syriza arriva il giorno dopo che la Bce ha aumentato di 3,3 miliardi, portandolo a 68,3, la fornitura di linee di credito di emergenza alle banche elleniche tramite l’Emergency liquidity assistance (Ela), il sistema di ultima istanza che assiste gli istituti in “temporanea crisi di liquidità”. E ha allungato fino al 5 marzo la possibilità di accedervi. Una flebo senza la quale le banche greche, alle prese con una fuga dei depositi che negli ultimi due mesi ha superato quota 20 miliardi, andrebbero gambe all’aria. Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung l’Eurotower, per arginare l’emorragia, ritiene ragionevole addirittura l’introduzione di controlli sulla circolazione dei capitali nel Paese. L’indiscrezione in mattinata è stata smentita da un portavoce della Bce. Resta il fatto che gli istituti sono in serissima difficoltà e i soldi messi a disposizione basteranno solo per pochi giorni: solo la scorsa settimana hanno attinto ai fondi dell’Ela per un totale 51,7 miliardi, contro i 5,85 miliardi dei precedenti quindici giorni. Non per niente, secondo l’agenzia Reuters, il governatore della Banca centrale di Atene aveva chiesto che il tetto fosse alzato di altri 10 miliardi. Pretesa ridimensionata in seguito all’opposizione di alcuni membri del consiglio direttivo presieduto da Mario Draghi. E il padre nobile della Ue Giscard d’Estaing tifa per la Grexit - Sullo sfondo continua a incombere lo spettro dell’uscita della Grecia dalla moneta unica, la cosiddetta Grexit. L’ex presidente francese Valery Giscard d’Estaing, in un’intervista al quotidiano francese Les Echos, auspica oggi proprio questo esito: che il Paese “lasci l’euro” con una “friendly exit“, perché “non può risolvere i suoi problemi se non riavrà a disposizione una moneta svalutabile“. Secondo uno dei padri fondatori dell’Unione europea, “la questione fondamentale è sapere se l’economia greca può ripartire e prosperare con una moneta così forte come l’euro. La risposta è chiaramente negativa. Ma invece di concentrarsi su questo argomento di fondo e rispondere, gli europei si focalizzano sul debito greco”. “Assurdo”, secondo Giscard, “dire che si tratterebbe di una sconfitta dell’Europa”, anche perché “questa uscita consentirebbe di preparare un eventuale ritorno, più tardi”. Certo è, però, che si tratterebbe di un vulnus al dogma dell’irreversibilità dell’euro. Un salto nel buio che potrebbe aprire la strada ad altri “divorzi” dalla moneta unica, minandone la credibilità a livello globale. Anche se Standard & Poor’s, in un report appena diffuso, prefigura “rischi limitati” di contagio. Ma i mercati credono nella possibilità di un accordo - I mercati, comunque, sembrano credere nella possibilità di un accordo. Giovedì, dopo aver aperto deboli, hanno infatti recuperato terreno in seguito all’annuncio della richiesta del governo greco. In corrispondenza con il no tedesco hanno azzerato i guadagni, ma sono poi tornati in positivo. Atene, che in avvio di seduta segnava -0,44%, a fine mattinata è arrivata a guadagnare quasi il 4 per cento per poi ripiegare a +1,6 per cento. Piazza Affari, che aveva aperto in calo dello 0,1%, ha virato in positivo. Per quanto riguarda i mercati obbligazionari, il tasso di interesse a dieci anni pagato dai titoli di Stato greci resta poco sopra il 10% e quello sui triennali sopra il 18 per cento.

mercoledì 18 febbraio 2015

Grecia, gli errori della troika. “Assunzioni sbagliate e impatto su pil sottovalutato”

Fonte: F.Q. del 16/2/2015
Previsioni troppo ottimistiche su crescita e tasso di disoccupazione. Sottovalutazione dell’impatto dell’austerity sul Pil e sui conti pubblici. Sopravvalutazione dell’efficienza della macchina governativa di Atene. E un programma intrinsecamente “fragile“, viziato dal fatto che resistenze e veti politici non permisero di includere tra le misure previste una ristrutturazione del debito. Sono gli errori compiuti in Grecia dalla troika, l’ormai famigerato trio costituito dai rappresentanti di Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale. Diventato simbolo dell’austerità cieca e bersaglio da Atene a Roma a Lisbona, di manifestazioni e cortei di protesta dei cittadini che ne hanno pagato le conseguenze. A evidenziare tutti gli sbagli commessi sono rapporti e relazioni firmati dagli stessi creditori che tra 2010 e 2013 hanno concesso al Paese 240 miliardi di euro, pari al 130% del suo Pil. Il più grande pacchetto di assistenza finanziaria della storia, sfociato però in un disastro sociale e, dopo l’insediamento del nuovo governo di Alexis Tsipras, in un’impasse politica ed economica che rende l’uscita del Paese dall’Eurozona un’ipotesi concreta.
Il primo mea culpa del Fondo monetario è arrivato già nel 2013, quando un working paper firmato dal capo economista Olivier Blanchard ha messo in luce che i cosiddetti “moltiplicatori fiscali“, cioè il rapporto tra la politica fiscale e l’andamento del Pil, erano stati sottostimati di almeno un terzo. In pratica l’istituzione di Washington ha agito supponendo che il rigore di bilancio imposto alla Grecia nell’ambito del memorandum avrebbe provocato, per ogni euro di aumento delle tasse e riduzione della spesa, un calo del prodotto di 0,5 euro. Ma i fatti hanno dimostrato che il valore reale, in un’economia già in recessione, è di almeno 1,5. Il che spiega – magra consolazione – perché la ricchezza prodotta dal Paese è crollata dal 2010 del 25% contro il 3% messo in conto dalla troika. Con l’effetto collaterale che la disoccupazione è salita oltre il 25%, mentre, secondo i funzionari europei e del Fondo, il tasso avrebbe dovuto limitarsi a salire al 13 per cento.
Di conseguenza, la spirale dell’indebitamento anziché recedere si è aggravata. Portando il debito, che stando alle ottimistiche aspettative della troika non avrebbe mai superato il 154% del Pil, al 175 per cento. Nonostante l”haircut“, cioè il taglio del valore nominale debito nelle mani dei privati, resosi alla fine inevitabile del 2012. Una strada che, come messo nero su bianco dallo stesso Fondo nel country report sulla Grecia diffuso a giugno 2013, avrebbe dovuto essere intrapresa due anni prima per “ridurre il peso dell’aggiustamento” e rendere “meno drammatica” la contrazione del prodotto. Invece, per evitare scontri politici negli Stati (Germania in primis) che devono ottenere il via libera del Parlamento prima di concedere aiuti finanziari, l’opzione fu bocciata. Con il risultato, si legge nel rapporto, di “fornire ai creditori privati una finestra per ridurre le proprie esposizioni e spostare il debito nelle mani dei creditori ufficiali”.
Ma c’è di peggio: come emerge dal resoconto del meeting del consiglio direttivo del Fondo monetario del 9 maggio 2010, reso noto dal Wall Street Journal, molte di queste perplessità furono espresse fin dall’inizio dai membri sudamericani del board. Per esempio l’argentino Pablo Andrés Pereira previde che la Grecia “sarebbe stata peggio dopo aver implementato il programma” e “la strategia avrebbe avuto un impatto solo marginale sui suoi problemi di solvibilità”. Mentre il brasiliano Paulo Nogueira Batista sottolineò che quello in discussione non era “un salvataggio della Grecia ma dei debitori privati del Paese”. E in effetti è stato proprio cosìcome Tsipras, alle prese con un debito che ha raggiunto quota 315 miliardi, ha sottolineato più volte, di fatto solo una minima parte dei prestiti ricevuti da Atene sono finiti all’economia reale. Venti miliardi, per la precisione, contro i 48,2 andati a ricapitalizzare le banche e i 149 (tra capitale e interessi) serviti per pagare i creditori. L'”haircut”, realizzato riacquistando i titoli a un prezzo di circa un terzo rispetto al valore nominale ed emettendo nuovi bond a scadenza più lunga, è poi costato circa 45 miliardi.

Una “confessione” ancora più esplicita è contenuta poi nello studio The Troika and financial assistance in the euro area: successes and failure, commissionato l’anno scorso dal comitato per gli Affari economici e monetari del Parlamento europeo. Ottantotto pagine che esaminano nel dettaglio gli esiti dei programmi messi in atto in Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro giungendo alla conclusione che “a questo stadio non si può ritenere” che quello disegnato per Atene “abbia avuto successo” visto che “la competitività è ben lungi dall’essere stata ripristinata”, “l’accesso ai mercati finanziari molto probabilmente non sarà recuperato nel vicino futuro”, “le riforme strutturali stanno procedendo a un ritmo lento” e “le assunzioni del programma della troika si sono ampiamente rivelate errate“.
Non è un caso, quindi, se mentre Tsipras e il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis si giocano tutto a Bruxelles la troika sembra arrivata al capolinea. Il presidente dell’esecutivo Ue Jean Claude Juncker si è più volte detto favorevole alla sua abolizione e la Bce di Mario Draghi dovrà per forza chiamarsene fuori perché glielo impone la sentenza della Corte di giustizia europea sul programma di acquisto di bond governativi, in base alla quale l’Eurotower deve astenersi dal partecipare al monitoraggio dei programmi di assistenza. Il Fondo, dal canto suo, preferisce sfilarsi e fare da sé, recuperando una visuale “globale” e non limitata al continente europeo. Il fatto che, nelle trattative ora in corso sul programma di aiuti, si sia deciso di usare un più neutro “istituzioni” al posto dell’odiata parola a sei lettere, non dipende solo dal niet di Varoufakis, che con la troika si rifiuta di trattare. Ma dimostra che gli uomini in abito scuro saranno anche un capro espiatorio, ma hanno fatto troppi errori per poter restare in campo.
p.s.
LIBERTA'
ci danno gabbie con la chiave,
ognuno se ne può andare ognuno può rimanere.
Pochi escono, pochi lo sanno

preso da "Di spirito e d'amore" (Canto delle foglie di Dino Campana, trovato su questo blog: ocelum-rama)

martedì 17 febbraio 2015

Riforme: mena pure, tanto la colpa è di Grillo

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 15 02 2015 a firma di
Neanche fa più notizia che, nella politica italiana da sempre capovolta, il Parlamento cacci chi grida “Onestà, onesta!”. In fondo è la colpa più grave, quella più imperdonabile: un po’ come andare da Rocco Siffredi e pretendere castità. Regola aurea, per larga parte dei media, è che la colpa ricada a prescindere sul Movimento 5 Stelle: il capro espiatorio perfetto, che sia effettivamente criticabile (e spesso lo è) o che abbia come macchia quella di mostrarsi alterato di fronte ai soprusi (alla Costituzione, mica a loro). Il Parlamento è uno strano microcosmo: dentro si può fare di tutto, l’importante è che lo si faccia col sorriso. Sfasciare ogni cosa va bene, però con educazione. Al contrario, se qualcuno scopre che gli hanno appena rubato la macchina e per questo si arrabbia un po’, giocoforza il colpevole diventa lui: troppo maleducato. Funziona così, e funziona forse al contrario.
La fredda cronaca degli ultimi giorni (e notti) alla Camera mostra un quadro d’insieme scarsamente avvincente. Regole minime sventrate. Presidenti e vicepresidenti oltremodo parziali. L’evanescente Boschi che assurge a madrina costituente (esce Calamandrei, entra Maria Elena: come sostituire Pelé con Muntari). Una gestione delle minoranze e delle opposizioni appena illiberale. Canguri, sedute fiume, insulti. “Dissidenti” che abbaiano ma non mordono. La Boldrini che ormai imbarazza pure Sel. Una perdurante involuzione democratica, di fronte alla quale però buona parte dell’informazione italiana – non per nulla al 73 esimo posto per libertà di stampa, giusto tra Moldavia e Nicaragua – soprassiede. Molto meglio raccontare con dovizia la reunion tra Al Bano e Romina: è più facile, è più redditizio. Un tempo, quando c’era da demolire la Costituzione, si sceglieva agosto perché la gente era al mare. Oggi si sceglie Sanremo, perché la gente al mare non è ma ha comunque il cervello in vacanza. Così anche l’importanza da dare agli avvenimenti si capovolge: il problema non è che una ghenga arrivista – composta da nominati, eletta con legge incostituzionale – proceda come un bulldozer per trasformare il Senato in un dopolavoro inutile su cui spiaggiare consiglieri regionali spesso indagati e di colpo protetti da immunità, ma che l’opposizione alzi i toni.
Anomalia anche questa, del resto, se fino a ieri l’opposizione erano i Violante (di cui la veemenza è nota) e D’Alema (di cui il berlusconismo è noto). Accusare l’opposizione di opporsi troppo è come rinfacciare a Tyson di aver picchiato troppo Donnie Long: magari era vero, ma Tyson faceva il pugile. Mica l’impiegato al catasto. È tornata la Dc, una Dc 2.0 allegramente impreparata e spensieratamente autoritaria, garbata nei modi e carnivora nei contenuti. Renzi sta a De Mita come Carlo Conti a Bongiorno, e guai a chi non si adegua alla melassa normalizzatrice e restauratrice. Chi non ci sta – politici e intellettuali, giornalisti e cittadini – è un gufo. Un disfattista. Un eversivo da punire con l’espulsione dall’Aula, ma più che altro dall’informazione. Tipo i 5 Stelle, “fascisti” per antonomasia. Anche se hanno appena proposto una sorta di alleanza part-time a Syriza (noti fascisti) e Podemos (noti nazisti), esigendo che le Alba Dorata (noti democratici) girino al largo. Anche se avrebbero interrotto l’ostruzionismo alla Camera se solo fosse stato accettato il referendum senza quorum, un’idea che un tempo pareva piacere anche al Pd. Anche se a scazzottarsi sono stati quelli di Pd e Sel, e prima quelli di Ncd e Lega, e già che c’erano pare anche quelli di Forza Italia (si picchiavano tra loro: così, per ricordarsi di essere vivi). La narrazione capovolta impone che sia “colpa dei grillini”. Sempre. Il Pd ha picchiato Sel? “Colpa dei grillini”. L’Italia è uscita dai Mondiali? “Colpa dei grillini”. La carbonara è scotta? “Colpa dei grillini”. Com’è bella questa informazione, e questa politica, tutta al contrario. Così bella che, se ti adegui a guardarla a rovescio, perfino l’anomalia odierna sembra quasi una nuova forma di democrazia.
p.s.
ecco il punto: "una nuova forma di democrazia"......... altro che Atene e il discorso di Pericle del V° decolo A.C. qui si scrive la storia, sempre se sapete leggerla a rovescio!

lunedì 16 febbraio 2015

Naomi Klein, la rivoluzione: perché il capitalismo non è sostenibile

Fonte: dal Fatto Quotidiano del 14 02 2015 a firma di

L’ultimo libro della scrittrice e attivista canadese Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà, è un’utile lettura per riflettere sulla più pericolosa crisi che l’umanità sta vivendo: quella ecologica. Come la stessa autrice ha ammesso, solo di recente ha compreso come sia prossimo il limite ambientale. Un limite che se superato può farci precipitare in un baratro da cui la nostra specie non potrebbe più sollevarsi.
Il problema è che se un’attivista impegnata come la Klein, solo da qualche anno ha compreso che i gas climo-alteranti immessi nell’atmosfera hanno cucito una coperta termica che sta facendo lievitare le temperature e di conseguenza fondendo i ghiacciai e desertificando sempre più terreni, figuriamoci il cittadino medio tenuto volutamente all’oscuro.
Il testo della Klein non è particolarmente originale. A chi analizza certi fenomeni, molte delle tesi espresse risulteranno pleonastiche, tuttavia per un lettore esordiente in materia è una lettura consigliata. Specie per un lettore americano, Paese dal quale ancora gran parte di una classe politica nega persino l’esistenza del surriscaldamento in atto che invece è asserito dalla totalità del mondo scientifico. Del resto proprio dagli Usa viene elargito dai responsabili dell’alterazione climatica un miliardo di dollari all’anno per far affermare a giornalisti, politici ed economisti che il cambiamento climatico è una chimera.
Nel nostro Paese agli slogan ambientalisti del governo poi seguono leggi in linea al pensiero unico della crescita. Si pensi allo Sblocca Italia che permetterà nuove estrazioni di petrolio, nuovi incenerimenti di rifiuti e nuove colate di cemento.
Il libro della Klein è un assist da cui possono scaturire riflessioni più articolate in materia economica. Ma non solo, può essere anche un’occasione per un’auspicabile autocritica sulle scelte fatte dal frastagliato mondo ambientalista. Gli economisti di diversa estrazione, ma tutti devoti al dio della crescita, in Tv come dei bravi conduttori di una televendita cercano di piazzare il loro anacronistico paradigma di una crescita infinita in un pianeta finito. I neoliberisti tentano di piazzare Von Hayek, Friedman e i Chicago boys, i keynesiani, John M. Keynes e il gruppetto di marxisti sopravvissuti, Karl Marx. Tutti fautori di modelli economici e di visioni politiche nate nel secolo scorso che hanno in comune il miraggio della crescita. Una crescita che oggi, a prescindere dall’impatto ambientale, potrà essere solo effimera perché gonfiata da bolle monetarie. Inoltre, persino gli studi finanziati da multinazionali (le principali responsabili dell’attuale sfascio ambientale) indicano che nei prossimi anni, puntando ancora sulla crescita e quindi sullo sviluppo della tecnica, l’occupazione umana decrescerà in maniera esponenziale. In occidente crescita non è sinonimo di occupazione.
La Klein opportunamente fa notare come il movimento ambientalista sia spesso subordinato o usato per gli interessi di coloro che a monte causano i disastri ambientali. Un esempio italiano è il sinistro accordo tra il centro di ricerca Rifiuti Zero di Capannori e McDonald’s. Ad un ambientalismo che si fa strumentalizzare dalle multinazionali per farsi dare una pennellata di verde, si affiancano delle frange autoreferenziali che accettano la partecipazione solo di coloro che possiedono la medesima tessera ideologica.
La rivoluzione propugnata dalla Klein si può avere solo aprendosi a tutti, avendo come unico obiettivo la consapevolezza dei più in grado di farsi Stato. Lo Stato si deve riprendere le chiavi di quel potere esecutivo donato da una politica impavida a corporation che hanno come unico fine il profitto. Un profitto che pur di realizzarlo ha permesso di esternalizzare i costi inquinando l’aria, l’acqua, la terra e i nostri corpi sempre più vittime di malattie nefaste. Solo uno Stato efficiente, libero dalle cricche ed aperto a tutti i cittadini può sovvertire questo paradigma creato a vantaggio di pochi.
La storia è colma di esempi di rivoluzioni a cui sono seguite controrivoluzioni e restaurazioni. Una rivoluzione ci salverà solo se prima si realizza una rivoluzione personale. Una rivoluzione che libera da quella brama di potere e di visione elitista che a volte coincide tra chi contesta e chi causa i disastri ambientali ed economici. In altri termini serve una conversione. Una conversione che poi sia anche ecologica come propugnava l’indimenticato Alexander Langer.
p.s.
amo leggere la Klein e ho quasi tutti i suoi saggi ma non posso non prendere atto che l'editorialista del Fatto ha ASSOLUTAMENTE ragione: troppo spesso si scopre che qualcuno ha inventato una stalla per tenere dentro i buoi.... ma la "scoperta" avviene dopo che i buoi sono, da anni, scappati e quindi si prende atto che ormai, che dolore, la stalla non serve più!!!! Una cosa che, se rapportata agli ultimi 20 anni, potrebbe essere la nostra storia italiana: quanta gente dice che le riforme servono perchè non si può fare altrimenti perchè ormai è troppo tardi per fare marica indietro? E se pensiamo alla Grecia... idem

test velocità

Test ADSL Con il nostro tool potrete misurare subito e gratuitamente la velocità del vostro collegamento internet e ADSL. (c) speedtest-italy.com - Test ADSL

Il Bloggatore