venerdì 5 dicembre 2014

Standard&Poor’s taglia rating Italia: ‘Forte aumento debito e crescita debole’

Fonte: Il Fatto Quotidiano
L’agenzia di rating Standard&Poor’s ha declassato l’Italia. Il rating della Penisola scende da BBB a BBB-, un gradino sopra il livello “junk”, cioè spazzatura. “Il forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e bassa competitività, non è compatibile con un rating BBB secondo i nostri criteri”, spiegano gli analisti. La decisione riflette la revisione al rialzo della stima sul debito pubblico, che a fine 2017 è visto in salita a 2.256 miliardi di euro, 80 in più rispetto al livello attuale e, escludendo il contributo al Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf), raggiungerà un picco del 133% del Pil nel 2016 per poi stabilizzarsi al 127%. Al tempo stesso l’agenzia ha limato la previsione sull’andamento del prodotto interno lordo e ritiene che l’inflazione continuerà a mantenersi troppo bassa.
L’outlook resta però stabile, perché S&P si aspetta che il governo Renzi attui le riforme necessarie a ridare competitività all’economia mantenendo livelli di spesa sufficienti a contrastare l’eccesso di debito. Una mano arriva anche da Mario Draghi: dopo le sue dichiarazioni di giovedì, gli analisti di S&P sono convinti che la Bce “lavorerà per riportare a livelli normali” l’inflazione italiana e quella dei Paesi europei che ne sono i principali partner commerciali.
Nella nota in cui abbassa il nostro rating, S&P spiega anche come si aspetti un’uscita dalla recessione dell’Italia nella prima parte del 2015. Ma la crescita del Pil sarà modesta, solo +0,2%, rispetto al +1,1% finora previsto. L’agenzia di rating ricorda come l’esecutivo di Roma si aspetti invece una crescita dello 0,7% nel 2015, per arrivare a un +1,9% nel 2017. Numeri viziati, secondo l’agenzia, da un eccessivo ottimismo sui consumi, che invece resteranno deboli, e dalla situazione del mercato del lavoro complessa, con la disoccupazione ai massimi storici. Smentite anche le stime del Tesoro sul rapporto deficit/Pil: nel periodo 2014-2017 secondo Standard&Poor’s si manterrà al 2,7%, ben più alto del 2,1 per cento previsto da via XX Settembre ma anche sopra il 2,5% prefigurato in precedenza dalla stessa S&P. Il ritocco è legato al calo della previsione del Pil medio tra 2014 e 2017, passato da +1% a +0,5 per cento, all’aumento delle spese primarie compresi gli interessi sul debito fino al 2015 e alla riduzione delle entrate fiscali.
S&P contesta anche i notoriamente insufficienti risultati della spending review, che negli auspici del governo avrebbe dovuto garantire entro il 2016 32 miliardi di euro di tagli, pari al 2% del Pil. L’agenzia non è convinta di queste cifre, perché “nel medio termine mancano i dettagli del piano” e il rischio che i risparmi restino sulla carta è reale, soprattutto a causa dell’inflazione bassa.
Giudizio parzialmente positivo sul Jobs Act, “che si propone di affrontare il dualismo del mercato del lavoro italiano”. Secondo S&P è “un segno della volontà del governo di perseguire politiche adeguate per un Paese membro di un’unione monetaria che comprende alcuni dei Paesi esportatori più competitivi”. Servirebbe però anche più contrattazione decentrata, perché oggi il meccanismo di fissazione dei salari ostacola il recupero della competitività. Una maggiore flessibilità del mercato del lavoro potrebbe, per S&P accelerare un adeguamento salariale. Ma l’agenzia segnala anche come la riforma nel breve periodo non creerà occupazione, e “di conseguenza, la già elevata disoccupazione potrebbe peggiorare fino a quando non ci sarà una ripresa economica sostenibile”. Nel medio termine, tuttavia, le misure potrebbero essere efficaci, se applicate anche al secondo livello di contrattazione. Continuano poi a pesare i soliti fattori che scoraggiano gli investitori stranieri a puntare sull’Italia: servizi non riformati, sistema giudiziario lento e costoso, alte spese legali e amministrative, elevati costi di licenziamento per i dipendenti a tempo indeterminato. Inoltre il costo all’ingrosso dell’energia rimane sostanzialmente superiore, anche a causa dei monopoli presenti nel settore.Solo venerdì mattina il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, in visita a Francoforte per incontri con imprenditori e un convegno organizzato dal quotidiano Die Welt, ha difeso la politica economica del governo dicendo tra l’altro che “il debito italiano è sostenibile” e lo si vede “dal surplus primario che solo Germania e Italia (salvo che nel 2009) hanno mantenuto positivo”. In linea con la campagna di “marketing” sui conti pubblici italiani lanciata su Twitter con l’hashtag #prideandprejudice, il titolare del Tesoro ha aggiunto che “il debito italiano non continua a salire e se sale non è colpa dell’Italia. Se ci fosse un’inflazione in equilibrio all’1,8%, una crescita reale dell’1% e una crescita nominale di circa il 3%, il debito pubblico sarebbe in un sentiero di discesa rapidissimo”. Peccato che oggi il livello di inflazione sia in calo e in novembre si sia fermato allo 0,2%. Ma per il governo basta vedere il bicchiere mezzo pieno. Non per niente fonti di Palazzo Chigi hanno fatto sapere di vedere nel declassamento un “lato positivo”, perché l’agenzia vede “elementi buoni nelle riforme strutturali”, anche se “non tali da compensare l’aumento del debito e risvegliare l’economia nel breve”. Secondo le stesse fonti, “non si tratta di una bocciatura del Jobs act, anzi S&P dice che le riforme vanno bene ma bisogna andare più veloce”.
p.s.
in pratica, come da anni pochi fessi (fra cui il sottoscritto) vanno dicendo, la ricetta non solo è sbagliata ma ammazza il malato.. ammesso che di malato si possa parlare perchè risulta sempre più chiaro che il vero problema non era, e non è, il debito o l'economia ma quello di parificare le economie allo stesso livello e aprire i mercati alle aziende con il minor numero di regole possibile: se tutto è mercato tutto si domanda e tutto si offre al prezzo minore e al profitto maggiore....... e ciò può avvenire solo se si perde il filo democratico degli stati e si pensa solo al proprio piccolo interesse particolare: polticamente lo Stato non ha altro compito che quello di ricoprire le falle e i debiti dei mercati e dall'altro quello di vigilare a che nessuno disturbi i manovratori. Hai voglia a parlare di democrazia, elezioni, ecc. qui quello che conta è il consumismo non l'economia reale; l'assalto ai negozi per black friday e non cittadini consapevoli del proprio destino... un parco buoi e non un pianeta che sceglie cosa e dove andare.... ma "i talk to the wind... (libera citazione dal LP XXI century schizoid man" dei King Crimson, che di "schizoidi" ne sapevano eccome)": mettete insieme tutti i tasselli (dal WTO al TTIP) e vedrete come il quadro si completa!

giovedì 4 dicembre 2014

TTIP: l’accordo economico segreto internazionale che cambierà il mondo

Nel generale silenzio dei grandi media, relegato in fondo alle pagine e ai siti specialistici di economia internazionale, al riparo da ogni pericolo di dibattito pubblico fra le diverse sponde dell’atlantico e del pacifico, un ristretto gruppo di negoziatori governativi e un numero di gran lunga più alto di lobbisti per conto delle più potenti multinazionali  stanno pianificando da almeno quattro anni i due più mastodontici trattati commerciali internazionali del ventunesimo secolo.
Un enorme programma di smantellamento delle residue barriere commerciali, giuridiche e politiche tra Stati Uniti, Europa e dodici paesi delle due sponde del pacifico, funzionale alla creazione della più grande area di libero scambio del pianeta (comprendendo economie per circa il 60% del prodotto interno lordo mondiale), sia per l’estensione geografica che per la profondità capillare con cui il programma di liberalizzazioni e deregolamentazioni abbatterà tutti gli ostacoli sul suo cammino: dai diritti del lavoro alla proprietà intellettuale, dai servizi pubblici fondamentali fino al diritto alla salute. Si tratta del Transatlantic Trade and Investment Partnership tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, secondo step del più vicino Transpacific Partnershipche l’amministrazione Obama intenderebbe concludere prima della fine dell’anno, escludendo di fatto il Congresso dalle trattative in corso e accelerando i tavoli a porte chiuse con i Paesi partner (per la precisione: Giappone, Messico, Canada, Australia, Malesia, Cile, Singapore, Perù, Vietnam, Nuova Zelanda e Brunei) e gli incontri segreti con gli oltre 600 rappresentanti delle multinazionali. I contenuti e i termini delle trattative in corso sono di fatto inaccessibili agli organi di informazione e anche ai parlamenti dei Paesi coinvolti, se non a gran parte degli stessi governi, è precluso un accesso integrale alle bozze sugli accordi in ballo, come denunciato da Wikileaks.
Entrambi gli accordi possono essere letti come fasi differenti di un’unica ambiziosa strategia statunitense per la riconquista di una nuova egemonia globale ‘diffusa’, contro l’incubo che il mutato quadro dei rapporti di forza a livello internazionale possa marginalizzare sempre di più la potenza americana. Da una parte le nuove potenze emergenti del secondo e terzo mondo, quali il Brasile, India, Sud Africa e Messico continuano a crescere e sviluppare il proprio mercato interno, rivelandosi difficilmente controllabili attraverso i vecchi e nuovi forum internazionali, come il G20, e in alcuni casi rafforzando la costruzione di nuove aree commerciali regionali per la prima volta sottratte all’influenza statunitense, come nel caso del MERCOSUR in America Latina a trazione brasiliana. Dall’altro lato del pacifico l’asse economico e geo-politico tra il gigante cinese e la Russia si va affermando prepotentemente come epicentro degli equilibri mediorientali e asiatici (la soluzione diplomatica della vicenda siriana, come l’accordo sull’arricchimento dell’uranio in Iran lo hanno dimostrato recentemente) in una graduale scalata al ruolo di leadership  globale.
Nella morsa dei nuovi candidati all’egemonia internazionale, con il vecchio partner europeo allo sbando intrappolato nella spirale economica e sociale dell’austerità, lo stanco e frustrato impero statunitense tira fuori le unghia, archiviando di fatto le negoziazioni del mai compiuto Doha Development Round (il regime commerciale che avrebbe dovuto portare a compimento il sistema del WTO avvantaggiando le nazioni povere del terzo mondo) per lanciare una controffensiva senza precedenti con gli strumenti e la piena complicità delle più potenti multinazionali economiche e finanziarie, sulla scorta del programma elaborato per la prima volta dall’Atlantic Council di Wahington. Se, infatti, tale iniziativa va iscritta in una strategia diriconquista della scena internazionale da parte dei vecchi padroni del mondo (l’asse USA-Europa-Giappone), essa da inquadrata più ampiamente in un disegno di politica economica mondiale che vede, forse per la prima volta nella storia, il pieno protagonismo politico delle grandi corporation transnazionali, non più confinate a esercitare un’influenza esterna sui centri decisionali internazionalie regionali, ma sedute negli stessi tavoli di negoziazione e trattativa alla pari degli attori nazionali, se non in posizione privilegiata. I due trattati si profilano così come la prima autentica costruzione di un’area planetaria di libero mercato costruita a tavolino, per filo e per segno,da un’élite transazionale che supera i confini tradizionali tra Stato e privati, tra governi e interessi aziendali, sottraendosi a ogni controllo democratico.
Dal quadro che finora abbiamo grazie a Wikileaks e al lavoro di indagine del Corporate Europe Observatory, lo scarso numero di ‘addetti ai lavori’ da parte dei diversi governi coinvolti è ampiamente compensato dalle centinaia di lobbisti e manager del ristretto club di multinazionali dei più diversi settori, ben lieti di poter dare la loro consulenza tecnica ed esprimere il proprio punto di vista fino ai dettagli dei diversi articoli che comporranno i trattati. I contenuti dei due trattati che giorno dopo giorno si vanno delineando portano ben impresso il marchio degli interessi elitari da cui hanno preso forma. Proveremo qui a dare un rapido sguardo alle principali questioni in ballo per ogni diverso settore, spaziando tra il TPP e il TTIP proprio in virtù delle vistose analogie che emergono fra i due sistemi regolatori. Rinviamo a prossimi contributi sul Corsaro un approfondimento più dettagliato sulle singole questioni.
Impatto sul mercato del lavoro
Nonostante una metodologia improntata ai più ottimistici parametri econometrici, lo stesso Impact Assessment del TTIP elaborato dalla Commissione europea avverte del concreto rischio di un pesante shock nel mercato del lavoro europeo in seguito alle ristrutturazioni dei settori economici dopo l’entrata a regime del trattato commerciale. Settori come quello dell’allevamento, della produzione di fertilizzanti, di bioetanolo e di zucchero, segnala la Commissione, potrebbero realisticamente subire un pesante colpo dai vantaggi competitivi che avrebbe l’industria statunitense sulla controparte europea, con un relativo impatto negativo sull’intero sistema industriale dell’UE. Come in ogni accordo economico internazionale, le parti vengono poste su di un’uguaglianza formale di condizioni e regole che puntualmente finiscono per avvantaggiare quella economicamente più forte e competitiva. La libera competizione dell’industria americana sul mercato europeo, con i suoi standard produttivi e lavorativi, andrebbe verosimilmente a minare pesantemente diversi settori industriali europei più deboli e incapaci di reggere il confronto. Come giustamente segnalato dal rapporto del CEO, tale squilibrio di produttività industriale tra le parti potrebbe concretamente tradursi in un impoverimento ancora maggiore del sud Europa, già piegato dalla crisi e dagli effetti recessivi delle politiche d’austerità, i cui fragili sistemi industriali riceverebbe un ennesimo colpo (A brave new Transatlantic Partnership, p. 10). Si intuisce facilmente cosa potrebbe accadere nel mercato del lavoro.
Oltre alla perdita dei posti di lavoro che tale concorrenza aggressiva da parte degli USA e delle multinazionali porterebbe in Europa, non bisogna sottovalutare il pericolo di un abbassamento generalizzato degli standard dei diritti del lavoro, sindacali e previdenziali che i lavoratori in Europa subirebbe, allineandosi col sistema di (scarse) tutele, di debolezza dei sindacati e di privatizzazione del settore previdenziale tipico degli USA. Anche in questo caso gli standard si allineano verso l’alto per quel che riguarda la possibilità per i privati di far profitto e crollano verso il basso sul mercato del lavoro. Sempre la Commissione europea, senza peli sulla lingua, afferma a tal proposito che una delle priorità di un simile accordo commerciale è ‘ridurre il rischio di diminuire gli investimenti USA in Europa e la loro fuga in altre parti del mondo’. Se oltre gli USA consideriamo che i lavoratori in Europa dovranno fare i conti con una concorrenza che si aprirà ancora di più anche all’Asia, attraverso il corrispondente accordo del pacifico, l’attacco che si preannuncia sui diritti del lavoro si preannuncia catastrofico e senza quartiere. I diritti dei lavoratori sono d’altronde esplicitamente inseriti alla voce delle ‘barriere non-tariffarie’ da abbattere nel TTIP e nel TPP.
Proprietà intellettuale.
Le bozze del TTIP nasconderebbero un ritorno delle spirito e di interi paragrafi dell’ACTA (Anti-counterfeiting trade agreement), l’accordo multilaterale sulla proprietà intellettuale fortemente voluto dagli USA con cui il copyright avrebbe acquisito un potere legale e sanzionatorio enorme a scapito di un libero accesso alla cultura, concedendo alle multinazionali un potere di fatto illimitato sulla gestione dei dati personali degli utenti della rete a totale scapito della loro privacy. L’ACTA è stato fermato dal Parlamento europeo nel 2012 anche  seguito delle gradi proteste che avevano attraversato il continente, ma rischia adesso risorgere dalle ceneri nei dettagli dell’accordo trans-atlantico. Insieme alla perdita della privacy e dei ‘diritti digitali’ per tutti gli utenti di internet, tale accordo darebbe mano libera ai colossi multinazionali a fare del web un sistema di monitoraggio e sorveglianza: una trappola per la libertà di informazione e di fruizione della comunicazione via web. Infatti, tra i suoi capitoli più controversi, l’ACTA prevedeva la facoltà per gli Internet Service Providers di setacciare la rete a caccia non solo di violatori del copyright, ma anche di ‘sospetti’ e potenziali complici, consegnandoli alle autorità: un potere poliziesco e punitivo che scardinerebbe il potenziale del web come luogo della libertà di espressione e della cultura.
Ma l’ulteriore fortificazione del regime della proprietà intellettuale avrebbe anche conseguenze ben più devastanti. In primo luogo ne beneficerebbero le grandi industrie farmaceutiche rispetto ai farmaci generici, vedendosi assicurate un regime di monopolio legalizzato contro una competizione che finora ha regolato verso il basso i prezzi, tutto a spese dei sistemi sanitari nazionali, delle tasche dei contribuenti, ma soprattutto della loro salute.
Libertà degli investimenti
Tra i capitoli più temuti del TPP e del TTIP, quello sugli strumenti di tutela legale della libertà di investimenti per i privati minaccia di trasformare davvero ogni forma di ‘bene comune’, dai servizi pubblici alle cure mediche, in merce da scambiare sul mercato per il profitto delle grandi corporations. Secondo le indiscrezioni fornite dal CEO,entrambi i trattati contemplerebbero la piena introduzione della libera concorrenza quale principio cui ogni servizio pubblico debba sottostare, considerando anche i ‘potenziali rischi’ e gli ‘investimenti mancati’ provocati dall’ingerenza dello Stato. Come già accaduto nel novembre 2012 in Canada, un casa farmaceutica potrebbe procedere legalmente contro uno Stato che limitasse la libertà di investimenti garantendo degli standard sanitari e medici a livello nazionale. Ciò avverrebbe principalmente attraverso un rafforzamento della normativa a favore della libertà di impresa e di un nuovo sistema di risoluzione delle contese tra stato e privati che permetterebbe alle multinazionali di denunciare i governi che non rispettassero ‘la libertà e protezione degli investimenti’ con lo strumento dell’arbitratointernazionale tra i firmatari dei trattati commerciali, sottraendosi ai tribunali nazionali e sovranazionali (come la Corte europea). I due trattati costituirebbero in questo modo una nuova sfera legale e giudiziaria a uso privato cui i singoli governi si troverebbero a cedere altri pezzi della propria sovranità, insieme alla tutela dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. Possiamo soltanto immaginare come ciò possa tradursi non solo per l’Europa (e il sud Europa), ma anche per tutti quei contraenti deboli dell’accordo trans-pacifico (come il Cile e il Perù) che di fatto finirebbero per essere legalmenteincatenati ai ricatti delle grandi compagnie e dei loro investimenti predatori.
Ambiente e agricoltura
Nella logica degli standard al ribasso tra Stati Uniti e resto del mondo finirebbero in pieno i regimi di tutela ambientale, climatica e agricola e, se consideriamo le scarse tutele americane in tema di emissioni inquinanti e uso di tecnologie e prodotti ‘invasivi’ nel campo agro-alimentare, vi sono serie ragioni per temere uno dei colpi più violenti alla salvaguardia dell’ambiente degli ultimi decenni. L’armonizzazione degli standard qualitativi tra le due sponde dell’atlantico potrebbe portare in Europa, come denunciato da diverse voci, all’abbandono del ‘principio precauzionale’ che finora ha tenuto alla larga gran parte degli OGM, dei capi bovini dopati con ormoni e dei volatili sterilizzati chimicamente, tipici del made in USA. Lo sviluppo delle bio-tecnologie alimentari, in primo luogo con la libera commercializzazione degli OGM, è proprio l’obiettivo delle campagne milionarie e decennali condotte da giganti multinazionali come la Monsanto, la DuPont e la Dow Chemical. Lo stesso vale per gli standard agricoli sull’uso dei pesticidi e la tutela del paesaggio che potrebbero realisticamente pendere dal lato del più ‘liberale’ regime americano, tutto a svantaggio di un più elevato livello di sicurezza della qualità del cibo, della produzione in biologico, e della tutela dell’agricoltura europea costretta a subire, in particolare nell’area mediterranea, il durissimo colpo di un’impari e aggressiva concorrenza statunitense.
Banche e società finanziarie a piede libero
I padroni della finanza tra Stati Uniti ed Europa starebbero approfittando di questo ambizioso Round di negoziazioni per ottenere quello che, sotto gli occhi troppo attenti dell’opinione pubblica, difficilmente riuscirebbero a vedersi garantito dai governi nazionali in un momento di crisi simile: cioè un’ulteriore deregolamentazione del settore finanziario a livello globale. Attraverso il capitolo sulla tutela degli investimenti, le grandi società finanziarie potrebbero garantirsi ulteriori strumenti legali per il ‘risarcimento delle perdite’ e la tutela contro i rischi derivanti dal libero scambio di pacchetti di titoli più o meno tossici. Per quanto a parole l’intento dichiarato sia quello di una ‘regolamentazione prudente’ dei flussi finanziari, vi sono buone ragioni per sospettare, come fa il rapporto del CEO (pp. 22-23), che l’opposizione delle banche e dei governi inglese e tedesco, insieme ai colossi americani, saranno in fine determinanti nel ridurre al solo livello nazionale i regimi di controllo, favorendo un’ulteriore apertura dei mercati finanziari a livello atlantico.
Durante le ultime sedute della trattativa del TPP tenutesi a Salt Lake City, nello Utah, nelle prime due settimane di novembre, l’accelerazione da parte dell’amministrazione Obama si è contrata con l’opposizione di alcuni degli Stati coinvolti nell’accordo, così come rivelato da Wikileaks. Nuova Zelanda, Cile e Australia sarebbero in disaccordo su diversi punti della bozza di trattato, specialmente per quel che riguarda i diritti di proprietà intellettuale e il capitolo sulla tutela degli investimenti. Si apre così uno spiraglio per intaccare i piani statunitensi e privati per concludere in gran fretta e a porte chiuso la prima fase di un accordo di portata planetaria.
Il Corsaro si unisce ai movimenti che si stanno battendo per spezzare questo gigantesco cappio sopra le teste di milioni e milioni di cittadini in tutto il mondo. Il tempo è poco e finora il velo di segretezza e indifferenza da parte dell’opinione pubblica ha fatto da padrone su una questione così vitale per il futuro di tutti noi. Proviamo a rompere questo velo e dare una consapevolezza della reale posta in gioco di questi trattati: il nostro futuro e la possibilità stessa di poterlo cambiare un giorno.
(Articolo pubblicato su  Il Corsaro, titolo originale: “In gran silenzio arriva il TTIP: lobbisti e paesi del pacifico per l’accordo economico che cambierà il mondo”, 14 Dicembre 201)
p.s.
ora sembra puro complottismo, vero? Aspettate qualche anno e vedrete che, come già accaduto per i Trattati europei (anche quelli non noti a tutti come ad esempio quello istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità), quando si esplicheranno tutti i suoi effetti ci saranno persone che o negheranno di aver pensato che er un fregatura e altri che diranno... che non è vero e che tutto va bene

mercoledì 3 dicembre 2014

Universi paralleli, “ecco la prova della loro esistenza e interazione”

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 3/12/2014 articolo a firma di Davide Patitucci
Secondo lo strano mondo della meccanica quantistica, abitato da atomi e particelle, esiste un universo in cui questo articolo non è mai stato scritto. E, a un tempo, un altro mondo in cui è possibile leggerlo e commentarlo. Bizzarrie della realtà a livello dei suoi costituenti più intimi, governata da fenomeni che spesso fanno a pugni con il senso comune. E che hanno fatto storcere il naso persino ad Albert Einstein. Come la teoria del multiverso, in base alla quale esisterebbe una pluralità di universi paralleli, al punto che ogni decisione che ciascuno di noi prende in questo mondo ne creerebbe di nuovi. Secondo questa interpretazione, ci sarebbe, ad esempio, un mondo in cui il Terzo Reich è uscito vincitore dalla II guerra mondiale, e un altro in cui Hitler è uno sconosciuto pittore.
Può sembrare la sceneggiatura di un film, eppure i fisici teorici studiano questi scenari da almeno 50 anni, ed esistono complicati ed eleganti calcoli matematici in grado di descriverli. Secondo l’ultima formulazione, appena pubblicata suPhysical Review Xda un team dell’University of California a Davis, e della Griffith University australiana, non solo gli universi paralleli esisterebbero davvero, ma potrebbero persino interagire.
Quando fu introdotta per la prima volta negli Anni ’50 dal geniale matematico americano Hugh Everett III, all’epoca in forze alla Princeton University, la teoria dei molti mondi venne derisa. Everett riuscì a fatica a pubblicarla, e alla fine abbandonò disgustato la carriera accademica. Negli anni, però, le sue raffinate spiegazioni di alcuni strani fenomeni del mondo subatomico, come la capacità delle particelle di coesistere in luoghi diversi – stranezze che spingevano il premio Nobel Richard Feynman ad affermare che “chiunque crede di aver capito la meccanica quantistica, non l’ha compresa abbastanza” – hanno fatto sempre più breccia tra i fisici.
“Secondo la teoria di Everett – spiega Howard Wiseman, a capo del team australiano – ogni universo si divide in una serie di nuovi universi, quando viene effettuata una misurazione quantistica. Partendo dalle sue intuizioni, abbiamo dimostrato che è proprio dall’interazione tra questi mondi, soprattutto repulsiva, che nascerebbero i fenomeni quantistici”. “Nel multiverso – aggiunge su New Scientist David Deutsch, fisico della Oxford University – ogni volta che facciamo una scelta si realizzano anche le altre, perché i nostri doppi negli universi paralleli le compiono tutte”. Un’idea sfuggente, difficile da accettare ma, a pensarci bene, non del tutto negativa. Il pensiero che, di fronte alle scelte più difficili di tutti i giorni, ogni possibile alternativa abbia l’opportunità di realizzarsi potrebbe essere in fondo rassicurante.
“Il multiverso mi ha reso una persona più felice – commenta sempre su New Scientist Max Tegmark, fisico del Mit -. Mi ha dato, infatti, il coraggio di correre più rischi”. Ma come provare queste teorie e legarle a fenomeni fisici osservabili? Secondo Lisa Randall, prima donna a ottenere la cattedra di Fisica teorica alla Harvard University, una possibile strada è il legame con le ricerche sulla natura della forza di gravità. In base ai suoi studi, tra i più citati degli ultimi anni, gli altri universi, vicinissimi al nostro anche se invisibili, sarebbero immersi in uno spazio a più dimensioni, come un arcipelago di isole sparse nell’oceano. Su uno di questi isolotti sarebbero concentrate le particelle che trasportano, come fanno i fotoni con la luce, la forza di gravità. Si chiamano gravitoni e sarebbero gli unici in grado di saltare da un universo all’altro. Ma solo alcuni riuscirebbero a “visitare” il nostro universo. Ecco perché la forza di gravità ci appare così debole, poiché diluita su più universi, che la assorbono come una spugna. “Uno degli scopi dei miei studi è spiegare perché la forza di gravità è così debole in confronto alle altre forze fondamentali della natura – spiega la studiosa nel suo libro “Passaggi curvi” -. Un piccolo magnete, infatti, può attirare una graffetta, nonostante la Terra nella sua interezza eserciti su di essa la propria attrazione gravitazionale”.
Il battesimo sperimentale a queste ricerche teoriche potrebbe arrivare a partire dal prossimo anno, al Cern di Ginevra, con la riaccensione alla sua massima energia di Lhc, l’acceleratore di particelle più potente del mondo. Questa macchina, una pista magnetica di 27 chilometri capace di sondare la struttura più intima della materia, potrebbe essere in grado di vedere i gravitoni, fino ad ora mai osservati direttamente. “Con Lhc potremmo trovare particelle che non esistono più dai tempi del Big Bang, circa 14 miliardi di anni fa – sottolinea Randall -. Tra loro potrebbero essercene alcune che vivono solo su altre dimensioni, o persino su altri universi. La loro osservazione, quindi, sarebbe una prova importante dell’esistenza di altri mondi”. Queste particelle, infatti, lascerebbero una sorta d’impronta gravitazionale sul nostro universo. Come un’ombra che si allunga su un muro in un giorno assolato.
Come spesso accade nella scienza, gli studiosi vivono e si muovono ai bordi della conoscenza. “Non sappiamo come questi studi cambieranno la nostra percezione del mondo – afferma Randall -. Lo stesso Einstein non poteva prevedere che la sua teoria della Relatività avrebbe un giorno trovato applicazioni nel Gps. Esistono nell’universo molte regioni ancora inesplorate – aggiunge la studiosa -. Sapere cosa cercare è spesso difficile, ma questo non deve scoraggiare. Ciò che ancora non si conosce deve servire da stimolo per porsi nuovi interrogativi. È questo – conclude la scienziata di Harvard – che rende la scienza accattivante”.
Lo studio su Physical Review X
p.s.
giusto per capirsi.....

martedì 2 dicembre 2014

Archeologia: ritrovata in Russia pietra con microchip

Guardate bene questa foto:

sulla sua sinistra, vicino la moneta, cosa notate? Bene, ora leggete questo
Fonte: Ecolibero
Archeologia: ritrovata in Russia una pietra con microchip incorporato. Continuano le incredibili scoperte archeologiche, nuovi ritrovamenti in tutto il mondo lasciano stupiti ed increduli archeologi e scienziati.
Pietra con microchip in Russia: il ritrovamento
La scoperta è stata fatta alcuni giorni fa da un pescatore, tale Victor Morozov, della città russa di Labinsk nella regione di Krasnodar. La singolarità e la stranezza della pietra hanno indotto il pescatore a consegnarla alle autorità e quando questa è arrivata nelle mani degli scienziati si è subito capito che si era in possesso di un reperto assolutamente sbalorditivo ed incredibile. La pietra aveva incastonato un inusuale microchip fabbricato da una avanzata tecnologia non terrestre e l’esame con il carbonio 14 ha rivelato un’età tra i 250 ed i 400 milioni di anni! Assurdo? Impossibile? Siamo oramai abituati a queste parole, la realtà che si scontra con i dettami canonici della storia e dell’archeologia. Eppure i dati parlano chiaro, volenti o nolenti è oramai certo che è esistita una civiltà tecnologicamente avanzata che ha popolato la Terra tra i 250 ed i 400 milioni di anni fa. Da notare che questo non è l’unico ritrovamento che ci porta indietro di milioni di anni, se ne scoprono sempre di più, oggetti e ritrovamenti fossili che per la scienza sono impossibili e per questo boicottati, non accettati, perché indicano un qualcosa che va fuori dalle logiche rigide della storia come l’abbiamo costruita noi. Gli scienziati russi hanno fatto capire di essere in possesso di altro materiale che testimonia l’esistenza di una antichissima civiltà che ha popolato la Terra milioni di anni fa e che presto divulgheranno i risultati.
Pietra con microchip in Russia: considerazioni
Restiamo in ansiosa attesa di queste rivelazioni sperando che finalmente si riesca a rompere la cortina fumogena che da anni copre gli sbalorditivi e sempre più interessanti ritrovamenti archeologici datati milioni di anni e che si possa conoscere la verità sui nostri antenati e la loro incredibile tecnologia.
p.s.
su questo pianeta ci sono state 4 estinzioni di massa accertate in 4 mld di anni... e da almeno 400 mila esistono oggetti e ritrovamenti di reperti "strani"..... ci sono prove, chiamate oopart (Out Of Place Artifact), che mettono l'archeologia di fronte a delle problematiche che troppo spesso ha scelto di metterle da parte se non coincideva con le teorie ufficiali...... ma quegli oggetti ci sono e raccontano un altra storia: bastano mente aperta e coraggio.
Sempre ammesso che non siano come le famose teste di modigliani livornesi che sbugiardarono e rovinarono diverse carriere nei beni culturali.....
cosa credere? ma, prendendo spunto dal post, VOGLIAMO CREDERE O PREFERIAMO RESTARE NELLA CULLA CHE L'UFFICIALITA' CI HA COSTRUITO INTORNO IN MIGLIAIA DI ANNI DI CONTRAPPOSIZIONE APRIORISTICA FRA CREDO RELIGIOSO E SCIENZA?

lunedì 1 dicembre 2014

L’Italia può farcela a uscire dalla crisi. Ma soltanto senza l’euro

Fonte: Il Fatto Quotidiano di Alberto Bagnai | 30 novembre 2014
L’Italia può farcela, e può farcela da sola. Ma intendiamoci bene: “da sola” significa sciolta da un vincolo monetario che, per i suoi errori di progetto (ammessi dallo stesso vicepresidente della Bce, come abbiamo visto), che si traducono nell’atteggiamento schizoide rispetto al ruolo di Stato e mercato su cui ci siamo lungamente soffermati, sta portando un intero continente al suicidio. Sarebbe “retorica europeista di maniera”, come diceva il presidente Napolitano nel 1978, assimilare la scelta strategica di recuperare sovranità e flessibilità a un’opposizione al progetto europeo.
Non si tratta di opporsi all’“Europa”. Non si tratta di mollare gli ormeggi e vagare per il Mediterraneo (dove, fra l’altro, tutto saremmo tranne che soli, anche per effetto delle lungimiranti politiche di questa Europa che porta la pace, e che ha contribuito a trasformare la fascia costiera meridionale del Mare nostrum in un focolaio di disperazione e morte, lasciando a noi, e solo a noi, l’incombenza di gestirne le inevitabili conseguenze umanitarie: basti pensare alla vicenda libica, nella quale gli interessi del nostro paese e, visti i risultati, delle stesse popolazioni coinvolte, sono stati fortemente compromessi da iniziative di altri paesi, non particolarmente coordinate a livello europeo).
Si tratta di riconoscere che l’“Europa” non funziona perché non può funzionare, perché le élite che l’hanno costruita hanno dichiarato guerra non solo alle classi subalterne, ma anche e soprattutto alla logica (economica e politica).
Si tratta di prendere atto di questo errore e di trarne le conclusioni, che poi sono quelle a cui il Nobel James Meade era già arrivato nel 1957: finché persisteranno disparità strutturali rilevanti fra i Paesi europei, di tale entità per cui sia utopistico ovviare con dei trasferimenti, un percorso ordinato di integrazione economica e politica richiede che si mantenga la flessibilità dei cambi nazionali. I trasferimenti necessari per riportare un minimo di equilibrio strutturale in Europa sarebbero di un ordine di grandezza politicamente insostenibile per la Germania. Nessuno, fra l’altro, constata mai il rovescio della medaglia: se da un lato una politica di trasferimenti è improponibile per il Nord, che non vuole pagare, c’è da chiedersi quanto sia politicamente proponibile chiedere al Sud di vivere perennemente con il cappello in mano, mendicando sua vita frusto a frusto, e questo quando esiste da sempre la certezza tecnica, e ormai da un po’ anche la consapevolezza diffusa, che italiani, spagnoli, greci, portoghesi, potrebbero vivere benissimo a modo loro a casa loro, come hanno fatto per millenni, con risultati spesso superiori a quelli raggiunti dai cugini del Nord. Siamo proprio sicuri che gli italiani, nonostante gli sforzi titanici della propaganda autorazzista condotta dagli Scalfari, dai de Bortoli, dai Napoletano, accetterebbero questa vita da pezzenti? E siamo sicuri che chiedere l’altrui misericordia sia l’atteggiamento politico corretto per farsi rispettare in Europa?
Notate anche l’amaro dettaglio che, come sempre, fa la delizia, o in questo caso il disgusto, dell’intenditore. Meade parlava di maggior ricorso alla flessibilità del cambio come strumento difensivo nei riguardi di comportamenti ostruzionistici da parte della Germania (ecce hoc novum est!), e ne parlava nel 1957, quando il regime di cambi fissi (ma aggiustabili) di Bretton Woods era in pieno vigore e Triffin non ne aveva ancora evidenziato le incoerenze, le aporie logiche. In una temperie culturale in cui era egemone l’idea della rigidità, Meade indicava chiaramente, senza troppe formule, ma con il giusto quantitativo di logica, il da farsi: ricorrere alla flessibilità. Oggi, nel momento in cui l’egemonia culturale della rigidità si sgretola a livello mondiale, nel momento in cui perfino il Fondo monetario internazionale interviene a chiarire che il progetto di cambio fisso europeo è in controtendenza e creerà problemi, nel momento in cui ciò che Meade vedeva si sta realizzando, noi, qui, continuiamo a considerare tabù quello che da sempre (anche sotto il gold standard) è stato un normale strumento di regolazione degli squilibri: lasciare che un Paese abbia, nel bene e nel male, una valuta che rifletta i risultati economici della sua comunità nazionale.
A questo scopo è essenziale che si capisca che il ripristino di un minimo di razionalità economica, il ripristino della flessibilità buona, il seguire (anziché l’opporsi) alle grandi correnti della storia, che quella direzione indicano, è l’unica possibilità che abbiamo per tentare un percorso di mediazione degli interessi in gioco, sia a livello nazionale che a livello internazionale, ed evitare un conflitto catastrofico. Questo perché una razionale gestione dei rapporti internazionali richiede, come abbiamo osservato parlando del tracollo di Bretton Woods, che gli scambi siano gestiti in modo da garantire un sostanziale equilibrio nel lungo periodo, evitando l’accumulazione di sbilanci persistenti. Allo stato attuale l’istituzione più semplice da implementare per contribuire a questo processo in seno all’Unione europea è il ripristino di una naturale flessibilità del cambio fra Paesi membri, almeno finché questi avranno diversi mercati del lavoro (mentre, di converso ogni tentativo di introdurre il cambio fisso in Europa è sfociato in una crisi, prima nel 1992, e poi nel 2008).
Se si ritiene, come chi scrive, che l’integrazione economica europea sia un valore da perseguire, il percorso giusto è ancora oggi quello che ci additavano gli economisti degli anni Cinquanta e Sessanta: abolita l’aberrante integrazione monetaria, ricominciare dall’integrazione delle economie reali, cioè dei mercati del lavoro, dei sistemi previdenziali, dei sistemi educativi, mantenendo fra le economie nazionali quei normali presidi dati dall’autonomia delle politiche fiscali, monetarie e valutarie. Cooperazione e coordinamento possono realizzarsi anche senza integrazione, ma non senza volontà politica. Un eventuale successo di simili meccanismi di coordinamento, fra i quali quelli che abbiamo elencato, consolidato in un periodo di tempo sufficientemente lungo, garantirebbe di poter procedere verso forme di integrazione economica più penetrante, fra le quali forse anche quella monetaria, che però, fra economie allineate nei fondamentali (e quindi non sottoposte a reciproche oscillazioni dei cambio di ampiezza preoccupante), diventerebbe, come ci siamo già detti, sostanzialmente inutile.
Un eventuale insuccesso di questa sperimentazione, viceversa, segnalerebbe che la volontà politica che anima l’Europa dopo l’euro sarebbe la stessa che ha operato finora nell’Eurozona: quella della sopraffazione, della guerra di tutti contro tutti, dichiarata dal più forte e gestita secondo le sue regole. E allora, posti di fronte a questo dato di fatto, bisognerebbe riconoscere, molto a malincuore, l’opportunità di andarsene ognuno per la propria strada. Un percorso forse non ottimale, ma comunque possibile per un paese come il nostro, che ha più risorse ed energie per affermarsi sul panorama dell’economia globale di quanto un’informazione distorta a beneficio di interessi esterni voglia farci credere.
(Da Il Fatto Quotidiano del 26 novembre 2014)
p.s.
come dargli torto? Come sempre il problema è alla radice.. marcia come marce erano le radici del nascente Stato italiano nel lontano 1860

Isis, guerre di conquista e guerre tra poveri. L’odio razziale è anche in Occidente

Fonte: Loretta Napoleoni sul Fatto Quotidiano del 30/11/2014
Nel caos geopolitico in cui ci troviamo, nel labirinto della vita virtuale in cui diventa sempre più difficile distinguere la realtà dalla finzione e di fronte a fenomeni inquietanti come gli scontri di piazza razziali negli Stati Uniti e l’ascesa in Medio Oriente dello Stato islamico, meglio noto come Isis, si alza la voce di Papa Francesco, che come un faro che cerca di squarciare le tenebre esistenziali in cui siamo piombati.
C’è ben poco da stare allegri: sullo sfondo della deflazione e di fronte all’ascesa della disoccupazione, non solo in Italia, ma a giudicare dai fatti di Ferguson, anche oltreoceano, si profila lo spettro del razzismo. L’Isis lo pratica quale strategia primaria per rendere la società il più omogenea possibile, una tattica che facilita la raccolta del consenso all’interno del territorio da questo controllato, il Califfato. La pulizia etnica e religiosa viene amministrata con atti barbari e disumani che a noi europei fanno tornare in mente le atrocità commesse dai Nazisti e dai Fascisti appena un secolo fa. L’accanimento contro il diverso, chi non è come noi, è naturalmente un segno di debolezza, tutte le gradi civiltà al loro apice erano multietniche e lo scambio di idee tra popoli diversi, tra culture diverse, tra religioni, usi e costumi diversi, arricchiva la popolazione. Da Babilonia a Roma fino al Califfato del Nono e Decimo secolo questo è il modello.
La debolezza dello Stato islamico è nota, un’organizzazione armata che vuole strutturarsi come Stato attraverso una guerra di conquista classica, condotta quasi porta a porta, in trincea. Un processo che dal 2011 viene attuato usando tecniche terroristiche, barbare per terrorizzare i nemici, tra cui anche noi occidentali, ed ingigantire l’immagine di potere dell’Isis. Una strategia che allo stesso tempo presenta agli abitanti abilitati a far parte del nuovo Stato – sunniti salafisti radicali – vantaggi mai avuti in passato sotto la gestione statale di regimi sciiti ostili, quello di Damasco e di Baghdad. La debolezza di questa costruzione sta nell’assenza di un processo di costruzione dello Stato basato sulla volontà ed il consenso della popolazione di unirsi, farsi Stato e condividere la cosa pubblica. Al suo posto, infatti, troviamo una guerra di conquista, da qui l’assenza del riconoscimento da parte della comunità internazionale che invece  ha deciso di combattere con una nuova guerra per procura il nuovo nemico che pratica pulizia etnica e giustizia barbaramente gli ostaggi occidentali.
La debolezza dell’Occidente è un’altra ed è tutta economica. La lunga onda recessiva si è trasformata in una marea deflazionista che minaccia il cardine primario della società occidentale: la crescita. Sullo sfondo dell’impoverimento della classe media e dell’assenza di mobilità sociale, quel 99 per cento di poveri e potenziali poveri hanno iniziato a lottare tra di loro. In questa guerra tra mendicanti c’è anche lo Stato, anch’esso affetto dal morbo della povertà, uno Stato che non riesce a sedare la rivolta dei poveri e che invece finisce per farne parte. La decisione delle istituzioni americane di non punire il poliziotto bianco che a Ferguson la scorsa estate ha ucciso l’adolescente nero che armeggiava una pistola giocattolo e di non concedere l’appello a questa sentenza ne è la riprova. Si vuole evitare il dibattito sui perché di questa azione, la paura del poliziotto in pattuglia in una zona principalmente popolata da neri; le tensioni razziali ancora fortissime nel sud degli Stati Uniti; l’aumento della criminalità spicciola quale reazione alle difficoltà economiche e così via.
In Europa Cameron chiede di trattare gli immigrati come cittadini di secondo grado, di ‘istituzionalizzare’ lo sfruttamento di costoro, e molti in Europa gli daranno ragione. A 25 anni dal crollo del muro di Berlino viene spontaneo chiedersi perché è stato abbattuto se il trattamento dell’europeo doc sarà diverso da quello di tutti gli altri, forse i motivi sono legati alla necessità del capitalismo occidentale di trovare nuovi mercati da colonizzare, ragioni che non hanno nulla a che vedere con la diffusione della libertà politica e l’uguaglianza tra i popoli.
Le parole del Papa sono preziose perché ci ricordano che gli uomini sono tutti uguali, questo è il primo sacrosanto diritto umano. Sono parole coraggiosissime, pronunciate in Turchia, un Paese a stragrande maggioranza musulmano, e che incitano all’apertura non alla chiusura attuale nei confronti dell’Islam, che suggeriscono la necessità di fare uno sforzo per intavolare un dialogo informale, rozzo, con chi è vicino allo Stato islamico, per capire e trovare una soluzione non bellica, ma pacifica a quanto sta accedendo in questa parte del mondo.
Discorso analogo vale per la guerra tra i poveri, lo Stato deve avere il coraggio di Francesco per fermarla redistribuendo la ricchezza a favore di quel 99 per cento. La parola ‘nazionalizzazione’ dovrebbe essere rispolverata dal vocabolario della politica e pronunciata pubblicamente.

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