giovedì 10 luglio 2014

Sanità pubblica, ecco l’integrazione con le assicurazioni che piace a Unipol e Censis

..per completare il giro parliamo del vero complotto.. quello dei politici contro le istituzioni che occupano e contro le costituzioni uscite dalla seconda guerra mondiale delle quali uno dei pilastri era proprio la sanità pubblica..... uguale e gratuita, o quasi, per tutti. Ma se dobbiamo inchinarci al Trattato del WTO e ai suoi corollari e al nascente trattato atlantico che prevede che gli stati debbano mettere sui mercati, perchè più efficienti (balle), tutti, proprio tutti, i sevizi che finora hanno gestito bene o male.. allora il discorso torna: gli accordi, segreti o meno, vanno rispettati e i famelici squali, anche nostrani, sono affamati: intravedono lauti profitti laddove altrove ormai hanno fatto tabula rasa. Ora tutto torna: l'inefficientissimo sistema americano (tutto privato in mano alle assicurazioni che spende in maniera altrettanto inefficiente miliardi di dollari.. in parte presi dallo Stato indirettamente e in parte pagati direttamente dai lavoratori in busta paga laddove un lavoro ce l'hanno.. perchè se lo perdono addio cure sanitarie, anche le più semplici e banali) dev'essere importato qui; una torta da 200 mld di euro complessivi solo nel nostro paese che fa il paio con gli atrettanti mld di euro delle pensioni e delle liquidazioni: una ruberia legalizzata e garantita dallo Stato italiano!
Ringrazio Wikileaks per l'allarme lanciato: ma quanti lo sanno? E quanti sanno delle ormai imminente privatizzazioni "sanitarie e pensionistiche" richieste a gran voce dalla finanza e dalle assicurazioni (le quali hanno appena avuto il permesso di farsi "banca" con tutto quello che questo può significare laddove avviene in un paese come il nostro dove i controllanti sono gli stessi che hanno fatto le leggi.. di privatizzazione). Non se ne esce.... volevate le riforme? Bene ora godetevele..
p.s.
sapete perchè, sulla carta e basta, siamo una delle migliori sanità del mondo? Semplice: approviamo leggi che non attuiamo nè, tantomeno, finanziamo.. quindi mentre nei parametri siamo fra i migliori nella realtà il ghana, con tutto il rispetto, è meglio di noi; anche dal punto di vista del "controllo" è la stessa cosa: creiamo i controllori ma con la virgola: niente o pochi poteri e finanziamenti e, quando possibile, uomini devoti alla bisogna che guardano da un altra parte pur prendendosi lo stipendio pagato con le nostre tasse.....
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 9 luglio 2014
L’ipotesi che lo scricchiolante welfare pubblico, sanità inclusa, possa diventare appannaggio delle compagnie assicurative non è solo un’idea avanzata da osservatori ed esperti come l’avvocato Marco Bona che ne ha recentemente parlato a ilfattoquotidiano.it. Ci stanno pensando da tempo anche gli stessi assicuratori, a partire dalla Unipol delle coop che non ne fa mistero. “Appare ormai maturo il tempo di una nuova integrazione tra pubblico e privato, capace non solo di garantire la tutela sanitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescita economica, a partire dai territori”, ha detto commentando i risultati del rapporto Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche socialì di Censis e Unipol, che è stato presentato mercoledì a Roma.
“Se sapremo superare i pregiudizi consolidati, il pilastro socio-sanitario, inteso non più solo come un costo, può divenire una solida filiera economico-produttiva da aggiungere alle grandi direttrici politiche per il rilancio della crescita nel nostro Paese”, ha aggiunto Stefanini. “Nei lunghi anni della recessione le famiglie italiane hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico”, gli ha fatto eco Giuseppe Roma, direttore generale del Censis. “Oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far evolvere il mercato informale e spontaneo dei servizi alla persona in una moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni utilizzando al meglio le risorse disponibili”.
Secondo il rapporto che si basa su indagine svolta dal Censis per Unipol, nell’ultimo anno la spesa sanitaria privata ha registrato un -5,7%, il valore pro-capite si è ridotto da 491 a 458 euro all’anno e le famiglie italiane hanno dovuto rinunciare complessivamente a 6,9 milioni di prestazioni mediche private. Per la prima volta è diminuito anche il numero delle badanti che lavorano nelle case degli anziani bisognosi: 4mila in meno nell’ultimo anno. Sono i segnali di un’inversione di tendenza rispetto a un fenomeno consolidato per cui le risorse familiari hanno compensato per anni un’offerta del welfare pubblico che si restringeva. Tra il 2007 e il 2013 la spesa sanitaria pubblica è rimasta praticamente invariata (+0,6% in termini reali) a causa della stretta sui conti dello Stato. Era aumentata, al contrario, la spesa di tasca propria delle famiglie (out of pocket): +9,2% tra il 2007 e il 2012, per ridursi però del 5,7% nel 2013 a 26,9 miliardi di euro. Quanto al futuro, l’allungamento dell’aspettativa di vita, il marcato invecchiamento della popolazione, le previsioni di incremento delle disabilità e del numero delle persone non autosufficienti prefigurano bisogni crescenti di protezione sociale. 
“Negli anni a venire l’incremento della domanda di sanità e di assistenza proseguirà a ritmi serrati. Una domanda che l’offerta pubblica però non potrà soddisfare. C’è già oggi una domanda inevasa di cure e di assistenza a cui il sistema pubblico non riesce a fare fronte”, è stata la sintesi in sede di presentazione del rapporto. Secondo il quale “integrare pubblico e privato diviene, così, un’opportunità rilevante, per compensare una domanda cui la sola sfera pubblica non è più in grado di fare fronte”. In particolare l’idea è quella “di un’integrazione tra offerta pubblica e strumenti assicurativi (che permettano di sottoscrivere polizze a costi accessibili per poter godere in futuro di servizi di assistenza, di cura e di long term care) e di intermediazione organizzata e professionale di servizi” che “diventa quanto mai attuale”.
Anche perché, sottolinea il rapporto “l’Italia resta una delle poche economie avanzate in cui la spesa out of pocket intermediata, ovvero coperta da assicurazioni di tipo integrativo o da strumenti simili, rappresenta una quota molto bassa del totale della spesa sanitaria “di tasca propria”. L’Ocse stima che in Italia l’out of pocket intermediato sia appena il 13,4% del totale, a fronte del 43% della Germania, del 65,8% della Francia, 76,1% degli Stati Uniti. Si tratta di un dato che fa molto riflettere e che lascia immaginare lo spazio che esiste per allargare il perimetro di azione sia del pubblico che degli operatori privati, ma soprattutto per ridisegnare gli equilibri tra i due attori”.
In concreto “occorre naturalmente stabilire le modalità precise per attivare tale percorso di integrazione, non tralasciando che molti fenomeni di cambiamento socio-demografico variano ed assumono sfumature differenti a seconda dei territori in cui si articola il Paese. Coinvolgere, pertanto, gli Enti territoriali nella definizione di processi di integrazione pubblico-privato, ma soprattutto coinvolgerli nella definizione di strumenti integrativi di welfare può essere una pista di lavoro per attivare servizi maggiormente rispondenti ad uno scenario in cambiamento. In questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con una forte compartecipazione degli Enti locali”.
Un’ipotesi che dovrebbe interessare a tutti gli attori in campo, incluso il ministero del Lavoro di Giuliano Poletti che ha partecipato alla presentazione dello studio insieme al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, se incorniciata nel quadro tracciato dal rapporto. Quello che parla di “una vera rivoluzione produttiva e occupazionale, utile a risollevare l’Italia dalla prolungata fase di stagnazione” proprio grazie all’integrazione degli strumenti di welfare pubblici con il mercato sociale privato, “puntando a valorizzare l’economia della salute, dell’assistenza e del benessere delle persone (la “white economy”)”. Considerato nell’insieme, sostengono le stime al 2012 del valore della produzione e dell’occupazione dei comparti afferenti alla white economy frutto dell’elaborazione Censis su dati Istat, Assobiomedica e Farmindustria riportata dall’analisi, il sistema di offerta di servizi di diagnostica e cura, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali, servizi di assistenza a malati, disabili, persone non autosufficienti genera oggi un valore della produzione di oltre 186 miliardi di euro, pari al 6% della produzione economica nazionale, con una occupazione di 2,7 milioni di addetti. Numeri che non tengono ovviamente conto dei valori in ballo per il comparto assicurativo. Mentre resta fermo, sempre secondo lo studio, che “è evidente che la modernizzazione e la crescita della white economy, non possono passare solo per un investimento pubblico ma, viceversa, dovrebbero passare attraverso l’attivazione di un’offerta privata di servizi e di strumenti assicurativi e finanziari privati, di tipo integrativo, coordinati con l’offerta pubblica e sottoposti, ovviamente, alla vigilanza di organismi indipendenti competenti per materia”.
Un’idea che è piaciuta molto al ministro della Salute, Lorenzin che ha commentato che sulla sanità integrativa “non siamo all’anno zero” e dal prossimo autunno si costruirà “questo pilastro importante nella riorganizzazione del sistema sanitario“. “Dopo i costi standard e il Patto per la salute già realizzati” per il ministro è questo il prossimo importante passo da fare: organizzare “la sanità integrativa, sia con i fondi e sia con le assicurazioni, in modo tale da creare una complementarietà anche per quanto riguarda il settore pubblico”. Lorenzin immagina anche “dei fondi aperti. Penso ai lavoratori che perdono il lavoro, a come accompagnarli nei cambi di professione” . Si tratterà quindi di un sistema che non si va a sovrapporre “al servizio sanitario nazionale, ma dovrà essere integrato in una logica di sviluppo del sistema per creare anche una cultura del risparmio, utile all’assistenza per quando si sarà più anziani”. Inoltre, dovrà essere concepito in una logica di integrazione socio-sanitaria “penso – ha detto – non soltanto all’aspetto di sanitario ma anche di servizi alla persone”.
..  e "qui" c'è anche altro...il documento originale, stavolta in italiano, buona lettura

mercoledì 9 luglio 2014

Wikileaks: “Ecco il trattato segreto per la liberalizzazione selvaggia della finanza”

Stasera amici e colleghi blogger un pò di sano complottismo! Ci risiamo con i ragazzacci di Wikileaks che fanno saltare i nervi a mezzo mondo. Hanno già sputtanato i rapporti segreti delle varie intelligence e dei governi al punto che Assange è tutt'ora ricercato ma ora tirano fuori, se la news sarà confermata, un altra cosa: L'ACCORDO SEGRETO PER LIBERALIZZARE LA FINANZA A SCAPTO DI REGOLE, CITTADINI, E QUANT'ALTRO"..... in pratica quello che qualcuno chiama Nuovo Ordine mondiale; qualcun'altro libero mercato.. io la cupola internazionale, interconnessa con le mafie, che sta letteralmente distruggendo quel che rimane di costituzioni, libertà, diritti, welfare, ecc. così com'erano usciti dalla seconda guerra mondiale!
Un complotto? può darsi non lo so ma una cosa è certas: i media tacciono e i politici si sono messi in moto ovunque per attuarlo: da noi sono in piena azione: pensatela come vi pare ma poi non si venga a dire che "non lo sapevo".
dal Fatto Quotidiano di | 20 giugno 2014

Un accordo segreto a livello internazionale che punta a smantellare il ruolo dei governi nella finanza e aprire la strada a politiche ultra-liberiste. È questo il contenuto delle nuove rivelazioni di Wikileaks, l’organizzazione creata da Julian Assange già responsabile nel 2010 del “leak” riguardante i documenti riservati dell’esercito Usa sulle guerre in Iraq e Afghanistan. Il testo (parziale e provvisorio) dell’accordo è stato pubblicato giovedì sul sito dell’organizzazione di Assange e da alcuni giornali con cui collabora (in Italia l’Espresso). La trattativa per il TISA, sigla che identifica il Trade in Services Agreement (Accordo di Commercio dei Servizi) coinvolgerebbe 50 Paesi: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Peru, Sud Korea, Svizzera, Turchia, Stati Uniti e Unione Europea. Tagliati fuori, invece, i cosiddetti BRICS: Brasile, Russia, India e Cina.
Secondo Jane Kelsey, professoressa della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Auckland e autrice di un memorandum che Wikileaks pubblica a corredo della bozza, il TISA sarebbe in grado di determinare le politiche economiche dei maggiori Paesi a capitalismo avanzato evitando qualsiasi discussione in merito nei parlamenti degli Stati interessati. Già, perché le trattative a cui fa riferimento la bozza vengono definite “riservate” e lo stesso trattato è indicato come “classificato”. Di più: secondo quanto riportato in calce al documento, il TISA dovrebbe rimanere segreto per 5 anni anche dopo il raggiungimento dell’accordo tra i Paesi aderenti.
Il trattato ha contenuti simili al GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio) e al GATS (Accordo Generale sul Commercio dei Servizi), finiti al centro delle proteste a Seattle nel 1999 e al G8 di Genova del 2001. A differenza di questi, però, il TISA non è stato discusso in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), che prevede la pubblicità degli atti e una discussione più “trasparente”. Qualcosa di simile a quello che dovrebbe accadere per il futuro Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP), in agenda di Stati Uniti ed Europa nei prossimi mesi. Rispetto a questo, il TISA si muove su una sorta di “binario parallelo” (e segreto) che ne estende l’applicazione a un maggior numero di Paesi.
Il contenuto del testo pubblicato da Wikileaks riporta le proposte dei partecipanti alla trattativa, principalmente USA e UE, su tutti i punti che dovrebbero i temi oggetto del trattato. Nonostante divergano per qualche sfumatura, l’obiettivo dell’accordo è chiaro: eliminare tutte le leggi nazionali che sono considerate come “ostacoli” al commercio dei servizi in ambito finanziario. Un copione che ricalca i trattati approvati nel 2000 e che, secondo molti economisti e governi, hanno rappresentato la causa principale della recente crisi finanziaria globale.
L’analisi di Jane Kelsey mette in luce, in particolare, la volontà dei proponenti di eliminare alcune delle norme che sono state introdotte (o suggerite) in seguito alla crisi del 2008. Per esempio i limiti alle dimensioni degli istituti finanziari, imposti in alcuni Paesi per evitare il ripetersi di operazioni di salvataggio obbligate nei confronti di quei soggetti “troppo grandi per fallire”. Le proposte presentate nella bozza si occupano però anche di altre questioni, come la privatizzazione della previdenza e delle assicurazioni, l’eliminazione degli obblighi di divulgazione delle operazioni offshore nei paradisi fiscali, il divieto di imporre un sistema di autorizzazione per nuovi strumenti finanziari (come i derivati) o di regolamentare l’attività dei consulenti finanziari.
Gli accordi di questo tipo utilizzano un sistema sanzionatorio che segue canali “paralleli” alla giustizia ordinaria. Se un’azienda ritiene che lo Stato estero in cui opera vìola in qualche modo il trattato, può fare ricorso a un tribunale speciale che agisce come organo arbitrale, nel quale non sono previste udienze pubbliche. Lo Stato condannato a questo punto ha due scelte: cancellare la legge in questione o risarcire l’azienda. Un sistema che già in passato ha giocato brutti scherzi alle amministrazioni di diversi Paesi. Nel 2011, per esempio, l’Australia si è vista chiedere un risarcimento miliardario da parte di Philip Morris. Il motivo? Il governo australiano aveva obbligato i produttori di tabacco a vendere le sigarette in pacchetti senza logo per ridurne il consumo.
e "qui" c'è l'originale del documento, naturalmente in inglese

martedì 8 luglio 2014

Informazione e pensioni: il diavolo sta nei dettagli

UNA MIA CARISSIMA AMICA, SWALA_SIMBA, HA DETTO, IN UN COMMENTO AL PRECEDENTE POST, CHE DOPO AVERLO LETTO HA AVUTO UN INCUBO..... BENE A PROPOSITO DI UNCUBI LEGGETE QUEST'ALTRO... BUON SONNO!
SIAMO DAVVERO CONSAPEVOLI DI QUANTO CI STANNO RUBANDO CON IL CONTRIBUTIVO RISPETTO A QUANTO VERSIAMO? Fatta la domanda...... qualcuno ci ha risposto così.
dal Fatto Quotidiano di Lavoce.info (a firma di   e  | 7 luglio 2014
Cosa sanno i lavoratori della pensione?
Qual è il grado di comprensione che gli italiani hanno dei cambiamenti in atto e di quelli prospettici nel sistema pensionistico pubblico? Rispondere a questa domanda è più che un lezioso esercizio accademico. Rendere i lavoratori correnti consapevoli delle implicazioni della nuova normativa sull’importo atteso della loro pensione e sull’età a cui potranno accedervi, oltre che un atto di trasparenza, è anche una politica cruciale per consentire loro di mettere in atto quei comportamenti compensativi nelle scelte di consumo e offerta di lavoro, tutt’altro che facili da programmare, ma necessari in un contesto radicalmente differente rispetto a quello passato. Fino a ora purtroppo non è stato fatto molto in questo ambito.
I lavoratori di oggi (e quindi i pensionati futuri) andranno in pensione con una regola di calcolo delle prestazioni meno generosa rispetto a quella di cui hanno potuto godere i loro genitori e con un’età più elevata. Se il primo fattore (riduzione delle prestazioni) lascia pensare che sia necessario aumentare oggi il risparmio per fare fronte alla riduzione futura della pensione pubblica, il secondo, allungando la fase attiva e riducendo quella di riposo, va nella direzione opposta. Alla luce di queste considerazioni lo scenario futuro per i lavoratori attuali deve essere fonte di preoccupazione, oppure le riforme pensionistiche sono effettivamente state in grado di mettere in sicurezza non solo la sostenibilità finanziaria del sistema, ma anche l’adeguatezza delle sue prestazioni? E soprattutto i lavoratori correnti quanto hanno incorporato nelle loro aspettative i cambiamenti in atto?
Aspettative e realtà dei fatti
Su questo ultimo punto è interessante il dato della tabella 1, che riporta il valore del tasso di sostituzione atteso della pensione pubblica rispetto all’ultima retribuzione percepita prima di accedere al pensionamento a partire dal 2000 e fino al 2012 su un campione rappresentativo della popolazione italiana.
Tabella 1 – Rapporto atteso tra pensione e ultima retribuzione per i lavoratori. Valori percentuali.

Fonte: Archivi annuali dell’indagine campionaria sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane.
Almeno nelle aspettative, il valore futuro atteso della pensione pubblica presenta un trend decrescente che coinvolge in maniera sostanzialmente omogenea e continua nel tempo tutte le categorie sociali ed economiche sopra rappresentate.
Nello stesso periodo, e sullo stesso campione rappresentativo della popolazione italiana, è possibile avere informazioni anche sull’età di pensionamento attesa. I risultati sono riportati nella tabella 2 e testimoniano che, accanto alla riduzione nel valore futuro della pensione, gli italiani si attendono, con intensità crescente negli anni, di andare in pensione sempre più tardi.
Tabella 2 – Età di pensionamento attesa per i lavoratori.

Se valutati come una misura della capacità dei lavoratori di comprendere il cambiamento di scenario in atto, i risultati delle tabelle 1 e 2 potrebbero, a prima vista, sembrare incoraggianti. Gli italiani sembrerebbero, con intensità crescente negli anni, essere coscienti che il futuro sistema pensionistico sarà meno generoso dell’attuale e che verrà loro richiesto di uscire dal mercato del lavoro a un’età più avanzata.
L’età giusta per la pensione
Il diavolo tuttavia si nasconde nei dettagli. Qui di dettagli importanti ce ne sono due ed è su questi punti che una capillare campagna informativa potrebbe migliorare il grado di comprensione dei cittadini sugli effetti delle riforme:
1) a parità di altre condizioni, aumentare l’età di pensionamento aumenta il tasso di sostituzione, in particolare per i lavoratori che appartengono al sistema contributivo;
2) l’aumento dell’età di pensionamento, soprattutto dopo la riforma del 2011, è stato molto intenso ed è destinato a crescere ancora nei prossimi decenni.
Non sembra che questi due effetti siano stati compresi appieno, almeno nel campione da cui provengono i dati qui esaminati. Per misurarne l’importanza abbiamo (ri)stimato, sugli stessi individui del campione e tenendo conto dell’evoluzione della normativa pensionistica nel corso dei dodici anni osservati, l’importo della pensione pubblica. La tabella 3 mostra l’andamento medio dell’errore delle aspettative rispetto alla pensione da noi (ri)calcolata. Un valore positivo implica una sovrastima della pensione (a parità di età di pensionamento), un valore negativo naturalmente implica una sottostima.
Tabella 3 – Errore medio nell’importo annuo della pensione pubblica. Valori in migliaia di euro a prezzi 2012.

Fonte: Nostre elaborazioni sugli archivi annuali dell’indagine campionaria sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane della Banca d’Italia.
I dati della tabella testimoniano nuovamente la presenza di tendenze comuni a tutte le categorie analizzate. Se all’inizio del decennio scorso le aspettative sul livello futuro delle pensioni erano ancora ottimistiche, con il passare del tempo (e con il progredire delle riforme) le cose sono cambiate, tanto che nel 2012 il segno dell’errore diventa negativo, ovvero in media gli individui del campione sottostimano l’importo della loro pensione futura.
Da cosa deriva un cambiamento così deciso? Sicuramente il contesto economico generale (bassa crescita, crisi finanziaria, disoccupazione crescente) può aver giocato un ruolo importante. Tuttavia, aspetti più strettamente legati alla comprensione delle riforme hanno ugualmente un peso non trascurabile.
A supporto di questa tesi, la tabella 4 mostra quale è la percentuale di lavoratori del campione che, rispetto alla normativa vigente dell’anno, dichiara che andrà in pensione a un’età che risulta essere compatibile con la legge in vigore. All’inizio del decennio scorso tre quarti dei lavoratori era in grado di prevedere correttamente la propria età di pensionamento e la quota aumenta fino al 2008. Al contrario, la percentuale di coloro che prevedono correttamente la loro età di pensionamento crolla decisamente nel 2010 e nel 2012. È proprio a partire dal 2010 che, surrettiziamente, il Governo allora in carica ha legato l’età di pensionamento alle aspettative di vita, portando verso i 70 anni l’età di pensionamento di vecchiaia nel 2050. Questo non marginale cambiamento di prospettiva, riconfermato e reso ancora più rigido dalla riforma del 2011, non sembra ancora essere del tutto presente nella mente dei lavoratori italiani.
Tabella 4 – Percentuale di lavoratori che dichiarano un’età di pensionamento coerente con la normativa.

Fonte: Nostre elaborazioni sugli archivi annuali dell’indagine campionaria sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane della Banca d’Italia.
p.s.
sapete che significa? Che, in base ai lauti contributi che paghiamo, avremmo diritto a pensioni migliori ma invece accade esattamente l'opposto perchè dei contributi versati solo una parte ci ritorna.. l'altra serve a pagare tutto: dalle pensioni d'oro a tutto il resto.

lunedì 7 luglio 2014

Patto Renzi-Berlusconi, il modello “super-premier” senza opposizione

Solo perchè piacciono e sono state concordate con mr. B, meglio noto come l'amato capo, dovrebbe far suonare qualche campanello d'allarme... ma che a farllo lo faccia il pd ossia quel partito che per anni è stato tacciato di demonizzarlo e di essere comunista, dovrebbe farci aprire gli occhi su almeno due cose:
  1. a rileggere il piano di rinascita nazionale della P2.. procede impeterrito sulla sua strada in barba ai tanti soloni che lo esorcizzano;
  2. il paese che stanno costruendo proprio non mi piace.... si sono assicurati il proprio futuro rubandoci il nostro perchè i problemi di questo paese non sono nè la giustizia nè la costituzione nè, tantomeno, i diritti dei cittadini ma quel far west che loro chiamano mercato.... e la situazioni di monopolio non controllato prima pubblico e ora privato, almeno formalmente.
ecco cos'hanno in mente i geni del ponte di comando
dal Fatto Quotidiano di | 6 luglio 2014

Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta. Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri. Ce n’è abbastanza per dare ragione all’allarme inascoltato dei giuristi di Libertà e Giustizia sulla “svolta autoritaria”.
All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia. Il pericolo è una dittatura della maggioranza (“democratura”, direbbe Giovanni Sartori) a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile. Vediamo come e perché. Nella speranza di suscitare un dibattito fra i lettori e nel Palazzo. Prima che sia troppo tardi.
1. CAMERA La legge elettorale Italicum made in Renzi, Boschi, Berlusconi e Verdini conferma le liste bloccate (incostituzionali) del Porcellum, con la sola differenza che saranno un po’ più corte. La sostanza è che i 630 deputati saranno ancora nominati dai segretari dei partiti maggiori. Quelli medio-piccoli invece resteranno fuori da Montecitorio grazie a soglie di sbarramento spropositate: 4,5% per quelli coalizzati, l’8% per quelli che corrono da soli e il 12% per le coalizioni. Per ottenere subito il premio di maggioranza, il primo partito (o coalizione) deve raccogliere almeno il 37% dei voti: nel qual caso gli spetta il 55% dei seggi, pari a 340 deputati. Se invece nessuno arriva al 37%, i primi due classificati si sfidano al ballottaggio e chi vince (con almeno il 51%, è ovvio) incassa 327 deputati. Cioè: chi ha meno voti (37% o più) ha più seggi e chi ha più voti (51% o più) ha meno seggi. Una follia. Ma non basta: prendiamo una coalizione con un partitone al 20% e cinque partitini al 4% ciascuno. Totale: 40%, con premio al primo turno. Siccome nessuno dei partitini alleati supera il 4,5%, il partito del 20% incamera il 55% dei seggi. E governa da solo, confiscando il potere legislativo, che di fatto coincide con l’esecutivo a colpi di decreti e fiducie.
2. SENATO Con la riforma costituzionale, il “Senato delle Autonomie” sarà formato da 100 senatori non eletti: 95 saranno scelti dai consigli regionali (74 tra i consiglieri e 21 tra i sindaci) e 5 dal Quirinale (più i senatori a vita). Sindaci e consiglieri scadranno ciascuno insieme alle rispettive giunte comunali e regionali, trasformando Palazzo Madama in un albergo a ore: andirivieni continuo e maggioranze affidate al caso, anzi al caos. Di norma anche il Senato sarà appannaggio della maggioranza di governo. E comunque non potrà più controllare l’esecutivo: i senatori non voteranno più la fiducia né saranno chiamati ad approvare, emendare, bocciare le leggi. Esprimeranno solo pareri non vincolanti, salvo per le norme costituzionali. E seguiteranno a eleggere con i deputati il capo dello Stato e i membri del Csm e della Consulta di nomina parlamentare.
3. OPPOSIZIONE Nell’unico ramo del Parlamento ancora dotato del potere legislativo, cioè la Camera, i dissensi interni ai partiti di governo potranno essere spenti con il metodo Mineo e Mauro: chi non garantisce il voto favorevole in commissione alle leggi volute dall’esecutivo sarà essere espulso e sostituito da un soldatino del premier. Quanto al dissenso esterno, i partiti di opposizione saranno in parte decimati dalle soglie dell’Italicum. Per i superstiti, la riforma costituzionale disarma le minoranze istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche: corsia preferenziale per i ddl e i dl del governo, che andranno subito all’ordine del giorno per essere approvati entro due mesi, con sostanziale divieto di ostruzionismo e strozzatura degli emendamenti.
4. CAPO DELLO STATO Malgrado lo snaturamento del Senato, che finora contribuiva per 1/3 all’Assemblea dei mille grandi elettori (nel 2013 erano 319 senatori, 630 deputati e 58 delegati regionali) e in futuro sarà relegato al 10%, nessuna modifica è prevista per l’elezione del presidente della Repubblica. Quindi potrà sceglierselo il premier (anche se ha preso soltanto il 20% dei voti) dopo il terzo scrutinio, quando la maggioranza dei 2/3 scende al 51%. Forte del 55% dei deputati da lui nominati, gli basteranno 33 senatori per raggiungere la maggioranza semplice dell’Assemblea e mandare al Quirinale un suo fedelissimo. Il che trasforma il ruolo di “garanzia” del Presidente in una funzione gregaria del governo e della maggioranza: il capo del primo partito si sceglie il capo dello Stato che poi lo nomina capo del governo e firma i suoi ministri e poi le sue leggi e decreti. Inoltre, dopo il precedente “monarchico-presidenzialista” di Napolitano, a colpi di invasioni di campo, il nuovo inquilino del Quirinale potrà arrogarsi enormi poteri d’interferenza in tutti i campi, giustizia in primis.
5. CORTE COSTITUZIONALE Se tutto cambia nella selezione di deputati e senatori, nulla cambia nell’elezione dei giudici costituzionali. Chi va al governo con l’Italicum (anche col 20% dei voti) controllerà direttamente o indirettamente ben 10 dei 15 giudici costituzionali: i 5 nominati dal Parlamento e i 5 scelti dal capo dello Stato (gli altri 5 li designano le varie magistrature). Così, occupati i poteri esecutivo e legislativo, il premier espugna anche il supremo organo di garanzia costituzionale. E sarà molto difficile che la Consulta possa ancora bocciare le leggi incostituzionali, o dare torto al potere politico nei conflitti di attribuzione con gli altri poteri dello Stato.
6. CSM E MAGISTRATI Anche la norma del governo Renzi che anticipa la pensione dei magistrati dagli attuali 75 anni a 70 può diventare una lesione dell’indipendenza della magistratura. Il risultato infatti è la decapitazione degli uffici giudiziari, guidati perlopiù da magistrati ultrasettantenni. E i nuovi capi di procure, tribunali e Cassazione li nominerà il nuovo Csm, che sarà eletto nei prossimi giorni: per 2/3 (membri togati) dai magistrati e per 1/3 (membri laici). I laici, dopo l’accordo Renzi-Berlusconi, saranno tutti (tranne forse uno indicato dai 5Stelle) di osservanza governativa. Tra questi verrà poi scelto il vicepresidente, indicato dal premier, mentre il presidente sarà Napolitano e poi il suo successore, anch’egli di stretta obbedienza renziana. Così i nuovi vertici della magistratura li sceglierà il Csm più “governativo” degli ultimi 40 anni, previo “concerto” del ministro della Giustizia Orlando. Ad aumentare l’influenza politica c’è poi il progetto ideato da Violante e ventilato da Renzi di togliere al Csm i procedimenti disciplinari di secondo grado per far giudicare i magistrati da un’Alta Corte nominata per 1/3 dal Parlamento e per 1/3 dal Quirinale, cioè a maggioranza partitica.
7. PROCURATORI E PM Per normalizzare le procure della Repubblica non c’è neppure bisogno di una legge: basta la lettera di Napolitano al vicepresidente del Csm Vietti che ha modificato il voto del Csm sul caso Bruti Liberati-Robledo e ha imposto una lettura molto restrittiva dell’ordinamento giudiziario Mastella-Castelli del 2006-2007: il procuratore capo diventa il padre-padrone dell’azione penale e dei singoli pm, che vengono espropriati della garanzia costituzionale di autonomia e indipendenza “interna” (contro le interferenze e i soprusi dei capi). Secondo il Quirinale, “a differenza del giudice, le garanzie di indipendenza ‘interna’ del Pm riguardano l’Ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato” (e chissà mai chi può insidiare l’indipendenza “interna” di un’intera Procura). Così, nel silenzio del Csm e dell’Anm, il procuratore viene autorizzato addirittura a violare le regole organizzative da lui stesso stabilite, togliendo fascicoli scomodi gli aggiunti e ai sostituti, e avocandoli a sé senza dare spiegazioni. Per assoggettare procure e tribunali, basterà controllare un pugno di procuratori, senza più il bilanciamento del “potere diffuso” dei singoli pm.
8. IMMUNITÀ L’articolo 68, concepito dai padri costituenti per tutelare i parlamentari di minoranza da eventuali iniziative persecutorie di giudici troppo vicini al governo su reati politici, diventa sempre più uno strumento del governo per mettere i propri uomini al riparo dalla giustizia. L’immunità parlamentare, prevista in Costituzione per le Camere elettive, viene estesa a un Senato non elettivo, composto da sindaci e consiglieri regionali che per legge ne sono sprovvisti. Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà a magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama. Il voto sulle autorizzazioni a procedere rimane sia alla Camera sia al Senato a maggioranza semplice (51%). Il che consentirà alle forze di governo (anche col 20% di elettori, ma col 55% di deputati) di salvare i propri fedelissimi a Montecitorio e di nascondere a Palazzo Madama i sindaci e i consiglieri regionali delinquenti. E poi, volendo, di mandare in galera gli esponenti dell’opposizione.
9. INFORMAZIONE Le due leggi che l’hanno assoggettata al potere politico nel Ventennio B. – la Gasparri sulle tv e la Frattini sul conflitto d’interessi – restano più che mai in vigore. E nessuno, neppure a parole, si propone di cancellarle. Così la televisione rimane quasi tutta proprietà dei partiti. Il governo domina la Rai (rapinata di 150 milioni, indebolita dall’evasione del canone, fiaccata dai pessimi rapporti fra Renzi e il dg Gubitosi, e in preda alla consueta corsa sul carro del vincitore). E Berlusconi controlla controlla Mediaset (anch’essa talmente in crisi da riservare al governo Renzi trattamenti di superfavore). Intanto i giornali restano in mano a editori impuri: imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici per stati di crisi e prepensionamenti. Governativi per vocazione o per conformismo o per necessità.
10. CITTADINI Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%). In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta. Come i referendum abrogativi: che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata. E le leggi d’iniziativa popolare (peraltro quasi mai discusse dal Parlamento): ma i padri ricostituenti hanno pensato anche a queste, quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia.
p.s.
siete contenti? Bravi, continuate a votarli e a ingoiare tutte le balle che vi dicono.

domenica 6 luglio 2014

Copia Privata, l’Antitrust smentisce ministro e Siae. Pagano i consumatori

Sapere è sempre meglio dell'ipocrisia di chi non vuole assumersi la responsabilità delle proprie azioni......ma soprattutto lo posto per evidenziare come sempre in questo paese sia il consumatore, ex cittadino, a pagarne le scelte scellerate di chi gioca al dr. stranamore; e non è per quanto riguarda l'argomento del post: non è un caso che, ad esempio, nonostante la c.d. authority e il referendum, le tariffe sull'acqua siano aumentate del 85% e le assicurazioni del 130%!!!!!
dal Fatto Quotidiano di | 5 luglio 2014

“Non saranno i consumatori a pagare” gli oltre 150 milioni di euro all’anno che il nuovo decreto firmato lo scorso 20 giugno dal Ministro Franceschini ma, misteriosamente, non ancora pubblicato sul sito del Ministero dei Beni e delle Attività culturali dispone siano versati da chi distribuisce, nel nostro Paese, smartphone, tablet, Pc, chiavette Usb ed una miriade di altri analoghi dispositivi e supporti di registrazione.
E’ questa la linea di difesa con la quale il ministro dei Beni e delle attività culturali Dario Franceschini ed i vertici della Siae – dal Presidente, Gino Paoli al Direttore Generale, Gaetano Blandini – utilizzano, ormai da mesi, per scongiurare il rischio che milioni di cittadini italiani vivano gli aumenti tariffari che la Siae ha chiesto ed il ministro ha prontamente disposto, come un ingiustificato ed inaccettabile prelievo forzoso dalle loro tasche.
Molto meglio, naturalmente, tanto per il ministro – che soffre di un evidente calo di popolarità – che per la Siae – alla quale la manovra garantirà diversi milioni di euro all’anno, indispensabili per mantenere a galla le proprie scalcinate finanze – raccontare in giro che il c.d. equo compenso per copia privata, non è questione che possa o debba interessare i consumatori, perché a pagarlo dovranno essere le grandi e multimilinonarie corporation dell’elettronica di consumo che, peraltro – si è spesso lasciato intendere e detto espressamente in alcune posizioni ufficiali della Siae – pagano briciole di tasse nel nostro Paese.
E’, però, una straordinaria e, ad un tempo, puerile balla istituzionale.
E’, infatti, la stessa disciplina europea a stabilire che l’equo compenso debbano pagarlo i consumatori sul presupposto che utilizzino taluni supporti e dispositivi per fare una “copia privata” di opere musicali o cinematografiche regolarmente acquistate ed ad ammettere – in via eccezionale e, esclusivamente per una questione di praticità di prelievo – che le regole nazionali possano prevedere un obbligo di versamento del compenso da parte dei produttori e distributori che sono, evidentemente, di meno e più facilmente identificabili.
Pacifico per tutti – salvo per chi voglia negare, ad arte, questa elementare verità – che produttori e distributori possono e, anzi, devono, in una logica di business, ribaltare poi tali compensi sui consumatori finali, inglobandoli nel prezzo di vendita.
E’ una conclusione tanto elementare che, dal primo aprile, in Francia – Paese al quale, all’unisono, il ministro Franceschini e la Siae hanno detto di aver guardato nel disporre gli aumenti tariffari che stanno per abbattersi sugli italiani – è obbligatorio, per legge, esporre la misura del prezzo di ogni supporto e dispositivo imputabile a equo compenso da copia privata.
Ma, ieri, le posizioni ufficiali del ministro Franceschini e della Siae sono state definitivamente smentite e sconfessate addirittura dall’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato che nell’indirizzare al Parlamento ed al Governo la sua consueta segnalazione ai fini della predisposizione della Legge annuale per il mercato e la concorrenza [pag. 16] ha avvertito l’esigenza di riservare un capitolo proprio alla questione della “copia privata”, raccomandando, di modificare, senza ritardo, la legge sul diritto d’autore, per prevedere espressamente che “l’ammontare dell’equo compenso sia specificato nel prezzo corrisposto dai consumatori per acquisti di apparecchi di registrazione e di supporti vergini”.
Curioso, se fosse vero – come da mesi sostengono il ministro Franceschini e la Siae – che l’equo compenso devono pagarlo i produttori e distributori di tecnologia, che l’Antitrust si sia presa la briga di raccomandare a Parlamento e governo di obbligare chi vende tecnologia ad informare i consumatori delle tariffe sulla copia privata.
A questo punto non resta che augurarsi che i distributori di tecnologia anticipino il Parlamento ed il governo ed inizino subito ad esporre, accanto a tutti i prezzi di dispositivi e supporti gravati da copia privata, indicazioni ben visibili che diano atto del fatto che quando compriamo uno smartphone o un tablet 4/5 euro in più – a seconda della capacità di memoria – sono dovuti a titolo di equo compenso secondo le nuove tariffe stabilite dal ministro Franceschini su proposta della Siae.
Così, almeno, gli italiani inizieranno a farsi un’idea – e non dimenticheranno – di chi è la responsabilità, almeno politica, di certe scelte irrazionali ed anti-innovative.

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